giovedì 19 gennaio 2012

Il contesto. Una trascrizione (6)

Tempo da lasciar passare ne aveva, decise perciò di indugiare nei dintorni, in quella città diventata ormai un’estranea. Nella piazza, lungo il percorso delle bancarelle, mareggiava una folla variegata, di provenienze le più allogene: la stazione centrale è qui a fianco, pensò Valdo. Ebbe un tremito, come di freddo. Malgrado l’estate fosse imminente, non faceva caldo: dalla marina lontana spirava vento umido e fresco, ma in quel tremore si nascondeva un’esile inquietudine, che sapeva destinata a rinvigorirsi col trascorrere delle ore. Per ingannarla, si soffermò a compulsare qualche catalogo d’arte, documento di mostre tenute in giro per le grandi capitali del nord. I cataloghi delle mostre: ovvero, il riverbero del fluire cosmopolita di una cultura ridotta a molecole; e anche un indice della progressiva stratificazione sociale, del costituirsi, pietra su pietra, di un ristretto consesso di privilegiati in sempiterno credito col denaro e il tempo, tanto da poter decidere in qualunque momento di abbandonare ogni attività e partire per Parigi o Bruxelles, Madrid o Vienna, sulle piste ora di Cézanne, ora di Monet. Scorrendo la linea dei titoli esposti, l’occhio gli cadde su di una pubblicazione del tutto diversa, più compatta e voluminosa, stampata su carta di minor pregio: La Nobiltà Nera a Venezia dal XIII al XVII secolo, recitava il titolo. Non poté resistere alla tentazione di prenderlo tra le mani e di sfogliarlo, subito corse all’indice per tracciarsi una mappa mentale del contenuto. Costava una manciata di fiorini, e si risolse ad acquistarlo. Incamminatosi verso il Corso Vecchio, s’era lasciato alle spalle piazza della Torre dell’Orologio, avendo di mira gli spazi del lungofiume, meno soffocati di folla, dove forse qualche panchina su cui sedersi, e comodamente leggere, era ancora disponibile (nelle metropoli che una desueta propaganda vuole sede elettiva dell’industria e dell’operosità, immensi opifici a cielo aperto, chissà perché si incappa spesso in un inesplicabile andirivieni di sfaccendati). E, nel leggere quelle pagine, Valdo rifletteva su quanto la sorte sappia essere bizzarramente razionale; quanto mani ignare avessero disposto quel trattato storico a chiusa di una ghirlanda di cataloghi d’arte che solo pochi eletti avrebbero acquistato e compulsato seguendo una sconosciuta, ma oggettiva e razionale necessità. C’è idealismo perché c’è idea, si rincuorò, immergendosi di nuovo nelle vicende ricostruite nel libro.
L’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio, nel suo perpetuo rimodellare la storia, determinava circostanze probabilmente non calcolate: una poco estesa ma influente sezione periferica del suo comitato d’affari (magistrati, legali, notai, tributaristi, revisori di conti) beneficiava già da decenni dei frutti a cascata che l’organizzazione della lex mercatoria borghese e la speculare superfetazione del diritto privato garantivano. Di nuovo, gli venne in mente Varna, e l’anonimo ma inesorabile ingranaggio in cui, per il concorso di chissà quali e quanti avvenimenti, era rimasto intrappolato, senza poter disporre dell’aiuto provvidente e sagace che il comitato d’affari borghese, lesto ad accorrere a difesa del soldo dei potenti, lesina, pignolo e taccagno, ai miserrimi. Ogni volta che gli tornava in mente Varna, era come se alle spalle di quella sagoma senza lineamenti prendesse corpo un’ombra gigantesca, un moloch internamente composto da una miriade di ingranaggi e alberi rotori: lo stato, le istituzioni che lo compongono come macchina. Così s’era ridotto. Anche Varna era una di quelle circostanze non calcolate, e questo era di conforto a Valdo, poiché significava che l’idealismo non era dalla parte dell’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio, il che, presto o tardi, ne avrebbe segnata la sorte. Ma, come il libro che reggeva tra le mani suggeriva fin troppo chiaramente, l’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio seppe sfoggiare, nel corso della sua secolare storia, diabolica abilità nel travisamento, nel camuffarsi sotto sembianze di volta in volta diverse, nel recitare da consumato attore la parte di sé stessa e dell’opposizione a sé stessa al contempo: e che si può fare, contro un simile mostro, se si ha la sfortuna di rovinargli tra le fauci?
Una sorta di colpo d’ala del pensiero, abile a distoglierne l’intelletto dall’inseguimento metafisico, se non spettrale, di Varna, proiettò sullo schermo della mente di Valdo le ombre cinesi di Zosimo e Laras, e i fatti del loro scontro nello studio dello scrittore. Ne provava diffidenza, e non se ne spiegava il perché. Una immediata supposizione lo condusse a ravvisare, nella figura di entrambi, i caratteri che suggellano l’appartenenza, ancorché marginale, al comitato d’affari dell’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio; ma una tale diffidenza non costituiva spiegazione dell’alterco che li aveva divisi a recitare su fronti opposti. Fu qui che Valdo comprese il passaggio logico che lo aveva fatto transitare dalle capacità trasformistiche del sistema di dominio vigente, a quanto accaduto nello studio dello scrittore. C’era modo di ipotizzare che la sua visita potesse aver còlto di sorpresa Zosimo, e che costui, in qualche modo invischiato negli affari della Chiesa del popolo mondiale, ne avesse tratto motivo d’improvviso scoramento, se non di vera e con fatica celata paura. Ma, se così stavano le cose, perché mai raccogliere prove contro l’organizzazione di padre Caviglia? Sarebbe stato come raccogliere prove contro sé stesso. Forse, Zosimo non era impantanato piú di tanto con le iniziative imprenditoriali di quei due; nella cerchia accademica nazionale era notorio quanto le pubblicazioni d’una pluralità assai eterogenea di scrittori e pubblicisti di fama dipendessero dalla galassia editoriale che, direttamente o indirettamente, rimandava a padre Caviglia, e Zosimo n’era parte da piú di un lustro. Questo era uno tra i pochi fatti assodati: valeva la pena di utilizzarlo come base dell’interpretazione della scena svoltasi sotto i suoi occhi. Questa scena, peraltro, che aveva toccato a piú riprese punte farsesche e imbarazzanti, era esplosa come un fulmine a ciel sereno. Zosimo aveva, poco innanzi, espressamente manifestato il timore di rappresaglie, e che con questa allusione generica intendesse paventare una disdetta unilaterale del suo contratto con una casa editrice che gli liquidava periodici, cospicui versamenti, a corresponsione dei diritti d’autore, era cosa certa e finanche comprensibile. Ma poteva esserci dell’altro? Accusando Laras di avere, nel tempo, trasformato la quota di industria culturale ed editoriale detenuta dalla Chiesa del popolo mondiale nel suo portafogli, in un centro di produzione di letteratura sulle culture della narcosi da sostanze stupefacenti, sull’uso dei funghi allucinogeni nelle classi sacerdotali del Messico e dell’Asia meridionale, sulle esperienze psichedeliche di massa di un’intera generazione nel recente passato, su riti ancestrali e sacrifici cruenti, aveva sferrato un colpo basso dal quale non poteva discenderne che una ritorsione: perché l’aveva fatto, nonostante l’impreparazione all’attacco lamentata in camera charitatis, poco prima che colui ch’era il suo editore facesse ingresso nello studio? Piú rifletteva sull’intrigo, piú gli appariva chiaro che uno come Zosimo, con uno spiccato senso dell’utile, difficilmente avrebbe sprecato il suo tempo nella composizione di un dossier sulla Chiesa del popolo mondiale, corredato di documentazione probatoria, per sottoporlo all’autorità giudiziaria; anche perché era l’ultimo ad ignorare gli appoggi in seno a palazzo di giustizia che garantivano da iniziative inquisitorie l’organizzazione di padre Caviglia. Se l’avesse fatto, la sorte capitata ad Amerigo Durant, da lui stesso rievocata con un brivido, sarebbe toccata a lui. Diciamo che, con tutta probabilità, Zosimo, “scrittore civile” e “vaso di verità”, si era procurato un salvacondotto tale da metterlo al riparo da rappresaglie o imboscate. Anche di questo avrebbe dovuto discutere con Drogo.
L’ora del pranzo era trascorsa da un pezzo; riscuotendosi dal flusso di fantasticheria entro le cui ondivaghe volute s’era messo in temporanea clausura, ne sbirciò di malavoglia l’orologio: le quattro del pomeriggio. L’appuntamento con Drogo era per le sette. Indeciso se tornare a casa, posare il libro, attendere all’incirca un’ora e mezzo prima di uscire nuovamente, o incamminarsi da subito verso il luogo convenuto, scelse una via di mezzo: al suo appartamento non avrebbe fatto ritorno, né valeva la pena di portarsi immediatamente, con tale eccesso d’anticipo, in prossimità della trattoria; avrebbe seguíto, invece, lo stratagemma di avvicinarsi a tappe al luogo stabilito, inframmezzando tra l’una e l’altra la lettura di qualche pagina del libro. Sapeva e vedeva con chiarezza l’inquietudine che, tenue e incolore, s’era affacciata appena alla coscienza mentre vagava tra le bancarelle di piazza della Torre dell’Orologio; e sapeva quale progressione la stesse già trasformando da gassosa in liquida, fluido mescolato al sangue, perennemente in circolo a deformare i contorni degli oggetti, ridisegnando l’innocuo sorriso, che per combinazione fortuita sfiora tangenzialmente l’incedere, nella maschera sotto la quale si cela il sinistro bagliore dell’agguato. Da poliziotto di lungo corso, s’era abituato col trascorrere degli anni a convivere con l’estesa tastiera di una moltitudine di sensazioni sgradevoli, urticanti: una tastiera disposta a scala, come quella di un pianoforte: spesso predominavano i registri centrali di un rigoroso e posato calcolo dei rischi, ma andavano incrementandosi le occasioni in cui prendevano corpo i fantasmi suscitati dal registro grave dell’indefinito timore e dell’agitazione impalpabile. Qualche volta, ebbe a riconoscere lo stridore dissonante che materializzava il registro acuto della paura. Adesso siamo ancora nel grave, si disse.
Dopo aver camminato per una ventina di minuti, s’era lasciato alle spalle il fiume, ed era prossimo, ormai, alla stazione centrale: ne vedeva, anzi, la fiancata orientale. Percorse il tratto che conduceva all’entrata, ma s’arrestò ben prima di farvi ingresso, e se ne tenne anzi distante. Nei dintorni della stazione c’era dovizia di bar e caffetterie, gli sorse prepotente bisogno di confortarsi con un tè e qualche pasticcino, ché i morsi del pranzo saltato cominciavano a farsi sentire e non aveva voglia di presentarsi di fronte a Drogo stravolto dalla fame. Dirigendosi verso la caffetteria che pareva la meno degradata tra quelle nei pressi, di nuovo guadagnò con lo sguardo la stazione, fermandosi a scrutarne l’entrata, nel tentativo senza esito di catturare qualche scorcio di binario a vista. L’inquietudine aumentava la pressione sull’anima. Gettò lo sguardo tra la selva dei turisti e dei vagabondi, degli sfaccendati e degli accalappiatori di portafogli, e gli venne memoria dell’unico viaggio del suo passato, verso una triste città del nord, senza sole e senza ulivi, tra deliziose manifatture di cioccolato e virtuosismi in tessuti rari. Una città nella quale non avrebbe mai saputo vivere. E come si potrebbe vivere in una terra senza ulivi?, si sorprese a pensare.
Nella caffetteria, al riparo dalla maleodorante ed inutile congerie etnica che affliggeva i dintorni, e dilagava nei panorami urbani arrecando degrado crescente, ricominciò la lettura del libro. Pagina dopo pagina, scorrendone con gli occhi i minuti caratteri, tra le righe volte a ricostruire avvenimenti storici che parevano essere lontani, e invece si dimostravano disperatamente vicini, filo su filo si ricomponeva la ragnatela del potere, come quei giochi delle riviste di enigmistica lasciano percepire la figura nascosta attraverso l’unione di puntini numerati con una serie progressiva di righi di penna. Se fosse stato uno di quei dilettanti che giocano a fare gl’investigatori, vi avrebbe trovato qualcosa di elettrizzante: invece, non ignorava, non poteva ignorare che l’idra del potere detenuto dall’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio è sempre pronta all’opera dell’insidia; che dispone di sensori capaci di avvertire infinitesimali variazioni nel peso e nel calore delle idee circolanti, le misura, conserva nel suo armamentario una quantità sterminata di tecniche per decantare e filtrare e riconvertire l’opposizione, finché ciò che resta, solido ed insolubile per congenita natura, ma ineluttabilmente isolato, viene eliminato come una fastidiosa scoria. “L’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio praticava l’omicidio politico, occultato sotto mentite spoglie...”.
Riscuotendosi dal torpore in cui s’era rinchiuso nel tentativo di entrare nel cuore del tempo, controllò l’orologio che dalla parete della caffetteria occhieggiava immobile: le sei della sera, trascorse da una decina di minuti. Pagò il conto e, nell’uscire, dello sguardo curioso e stralunato del cameriere non si avvide. La trattoria nella quale si sarebbe incontrato con Drogo s’incastonava tra i vicoli a raggiera che un geniale architetto, ispirandosi a Francesco di Giorgio Martini e Andrea Palladio, aveva concepito sulla scorta delle speculazioni rinascimentali sulla città ideale. Dai pressi della stazione, alla trattoria si poteva giungere in una mezzora, camminando a ritmo sostenuto. Scorrevano al suo fianco, mentre filava con passo spedito, le vetrine dei negozi. Una ad una andavano illuminandosi. Valdo scrutò il cielo, e vide l’ombra del crepuscolo: un impercettibile minus di lumen dell’irraggiamento che s’elongava dallo zenit, declinando sull’orizzonte. Il camminare era meccanico, conosceva bene l’itinerario. Vi si recava spesso, in quella zona, soprattutto nelle domeniche estive, quando si manifestava la necessità di lasciar decantare quel filo di solitaria tristezza che, in mancanza delle accortezze imparate nel corso degli anni, sarebbe andato aggravandosi. Ma ora, ora che poteva scrutare il nembo del tempo trascorso dall’altro lato, gli riaffiorava alla mente Varna, il suo dolore costante, mescolato ai propositi di vendetta: propositi che un meccanismo causale aveva generato come unica via d’uscita alla sopportazione di un flusso negativo senza soluzione di continuità. E una volta messo in atto il disegno, dopo il primo passo, nella sua coscienza doveva essere comparso il titanismo del giudicare, del sentirsi giudice di quelle vite che spezzava. Un tale titanismo, il suo giudice di tribunale – qualora Valdo fosse riuscito ad acciuffarlo – avrebbe giudicato: e condannato. Gli tornarono in mente profonde parole: “La causa è: a) una realtà originaria e che ha da sé il primo movimento; e b) essa è però un condizionato da qualcosa su cui essa agisce e la sua attività passa nell’effetto. In questa reciprocità è insieme implicito che nessuno dei due momenti della causalità è qualcosa di assoluto per sé, ma lo è soltanto questo intero circolo della totalità, conchiuso in sé, che è in sé e per sé” (Hegel, Propedeutica).
Possono esserci momenti, nella vita dello stato, nei quali le ragioni dell’esercizio del governo e della conservazione del potere producono un conflitto che prende alla sprovvista il singolo. Nell’atto sacrificale, la vittima non ha cognizione della sua essenza di puro oggetto; raggiunge questa conoscenza nel momento in cui la lama del carnefice víola il suo corpo, in quell’inesteso punto in bilico tra essere e nulla in cui terrore psichico e dolore fisico sono inestricabilmente congiunti, per poi tornare a separarsi. Dopo di che, il flusso della vita psichica non risponde più ad alcuna categoria razionale, e la vittima che l’abbia scampata può decidere di restituire la pariglia, convertendosi in carnefice. La legge del taglione, cosí tanto esecrata dai giuristi d’ogni epoca. Ma la sospensione delle categorie razionali era in precedenza affiorata già nelle decisioni dello stato, nella sua legislazione: l’esercizio del governo estraneo a categorie di razionalità e avente a scopo la sola conservazione del potere, ossia il Leviathan, aveva determinato, per azione reciproca, il progetto omicida di Varna; e conferito alla sua anteriore mitezza i caratteri cruenti del giudice che amministra un altro tipo di giustizia. La “giustizia” di Varna stava in qualche modo ristabilendo un equilibrio, per quanto confinato al flusso della sua vita psichica.
Finalmente, un quarto d’ora prima delle diciannove, sbucò in corso della Serenissima. Percorse all’incirca duecento metri, accelerando il passo fin quasi a correre, e tralasciando, contrariamente ad una consolidata abitudine, di trattenersi al cospetto della vetrina di un negozio specializzato nella vendita di articoli per il disegno, sia artistico che tecnico. Per un certo periodo di tempo aveva coltivato la chimera di dedicarsi al disegno industriale, e questo lo aveva spinto a frequentare librerie e negozi specializzati, ma con esiti pressoché nulli. Una residuale affinità era rimasta, benché con la mutata forma del senso di colpa, e ogni qualvolta sentiva necessità di svagare la mente, si soffermava davanti a quelle vetrine che più gli lasciavano modo di ingegnarsi in progetti avveniristici, che avrebbero potuto – se fossero stati poco piú che un fatuo, assurdo sogno – trovare accoglimento e riconoscimento in qualche esposizione universale in giro per il mondo. Ma, poi, proprio questo elemento gli venne a noia, causando disturbi dei quali, sulle prime, non seppe rendersi ragione. Cominciò tutto con un disagio di fronte a quel modo di dire: in giro per il mondo. Che bisogno aveva di andarsene vagando per il pianeta, in visita a mostruose megalopoli, d’oriente o d’occidente che fossero? Cosí, anche il disegno industriale era entrato a far parte di una lista di tentativi andati a vuoto.
A metà di corso della Serenissima, svoltando a sinistra, una larga traversa intitolata alle dogane dogali s’incastonava, obliqua, nella tessitura color d’ocra scuro dei palazzi, sino a sbucare in una piazza quadrata, percorsa lungo il suo perimetro da alcuni olmi frondosi. Questo particolare contribuiva a rendere l’insieme intimo e accogliente alla vista. La tranquillità che ne promanava, però, durò un frammento di secondo. Di nuovo, gli venne da controllare l’orario: dieci minuti alle diciannove. Con sorpresa si scoprí ansimante, rendendosi conto di aver corso per giungere dalla stazione al luogo dell’appuntamento. Improvvisamente, stava guadagnando coscienza di quanto l’inquietudine, che s’era affacciata minuscola e quasi inosservabile di fronte alle bancarelle di piazza della Torre dell’Orologio, avesse in realtà scavato nella struttura della sua psiche, modificandone, come una coazione mimetizzata nel complesso meccanismo neuronale, il comportamento; e comprese come, piú spesso di quanto non si ritenga ordinariamente, l’inquietudine, controparte soggettiva di uno stato di cose oggettivo, rappresenti una penetrazione della cerchia dell’oggettività nella compagine psichica del soggetto: l’enigma dell’oggetto che si soggettivizza.
Decise di fare ingresso nel locale, sedersi in attesa di Drogo, recuperare fiato e padronanza di mente. L’interno in cui si trovò era confortevole e illuminato con una luce a incandescenza aranciata, che ricordava i lumi cimiteriali; prese posto a un tavolo e fece intendere al cameriere, che di lí a poco giunse nei suoi paraggi per servire due avventori ad un tavolo poco più in là, che era in attesa di una persona. Ormai erano le diciannove: come mai Drogo non si vedeva? L’inquietudine prese di nuovo a roderlo col suo tarlo, contro il quale non c’è difesa: Drogo, si disse, era stato allontanato dal servizio, quindi non poteva essere stato trattenuto da impegni di lavoro chissà dove. E se fosse accaduto un incidente? Una ridda d’ipotesi le piú inverosimili, ma tutte legate da un fondo generale di pessimismo, s’avanzarono turbinandogli nella mente. Fintanto che, mentre tentava di trovare il coraggio necessario a guardare per l’ennesima volta l’orologio, la sagoma di Drogo si materializzò sulla soglia, illuminata dalla luce aranciata del locale. L’ex direttore del SIS aveva con sé una borsa di pelle nera all’apparenza rigonfia di documenti; vide l’ispettore seduto ad un tavolo, e senza fermarsi gli fece cenno di seguirlo, mentre si dirigeva in fondo al locale, dove il cameriere stava armeggiando con delle posate. Quando Valdo giunse lì dov’erano i due, si accorse dell’esistenza di un’altra sala – molto ampia e perpendicolare all’ambiente più piccolo dov’egli, entrando, s’era attestato – illuminata dalla stessa luce color aranciato, ma leggermente piú intensa rispetto alla prima. Drogo e Valdo vennero invitati dal cameriere ad accomodarsi ad un tavolo appartato, in un angolo lontano dalle mura che davano sull’esterno. Era stato Drogo a farlo riservare.
Valdo si scoprí finalmente rilassato; l’inquietudine s’era ritirata in un qualche antro inaccessibile della sua psiche. – Ho temuto un vostro improvviso cambio di orientamento – disse.
– Nessun cambiamento. La mia destituzione è stata formalizzata oggi, ho perso tempo al ministero e in ufficio, dove ho dovuto ritirare i miei effetti personali, ma devo ancora terminare: entro domani la stanza deve essere sgombera per l’insediamento del mio successore. Mi verrà sospeso anche lo stipendio. – Era rabbuiato.
– Avete incontrato il ministro? Che spiegazione vi è stata fornita dell’accaduto?
– Naturalmente, il ministro non si è fatto vedere; c’era il suo capo di gabinetto, molto imbarazzato. Quanto alle spiegazioni, cosa vi aspettate che dicano... in simili casi si trincerano sempre dietro la giustificazione del normale avvicendarsi dei funzionari richiesto dalla commissione parlamentare che controlla i servizi d’informazione. Ma la sospensione dello stipendio è un provvedimento eccezionale sul quale il capo di gabinetto ha elegantemente sorvolato. Per giunta, credo che il provvedimento non sia stato neppure comunicato alla stampa.
Venne il cameriere con un aperitivo e a prender nota delle portate. Lontano che fu questo, Drogo indicò la capiente borsa che l’accompagnava. – In queste ultime ore ho cercato di radunare tutte le sparse informative giunte nelle settimane scorse nel mio ufficio – disse. – Ho perso un bel po’ di tempo a fare delle fotocopie, sono tutte qui –. Batté l’indice sulla borsa di pelle nera.
Un soffio di stupore percorse il pensiero di Valdo: gli avevano consentito di fotocopiare materiale riservato? e di trasferirlo di là dalle mura dell’archivio, per giunta? Interrogato sul fatto, Drogo rivelò di aver compiuto il furto di documenti al mattino presto, prima dell’arrivo del capo di gabinetto e dei funzionari del ministero. – Non sono usi a venire a lavorare presto, quelli lì... se la prendono comoda – celiò.
Su questo, riconobbe Valdo, l’ex direttore del SIS aveva piú d’una ragione: fino alle dieci del mattino, le caffetterie nei dintorni di piazza del parlamento traboccavano di figure avvolte in soprabiti neri e cravatte rosso scuro.
– Informazioni sparse, bisognerà rimetterle insieme – osservò poi, improvvisamente dimentico di quelle stranezze della vita di un sistema di potere sempre piú simile ad un sultanato. Valdo annegò un filo di malessere nell’aperitivo molto fresco.
– Cominceremo a lavorarci da subito, se non avete nulla in contrario. Ma la difficoltà maggiore che incontreremo riguarderà non tanto la ricostruzione del loro piano, quanto stabilire il nostro.
L’ispettore capí dal tono della voce, fattosi grave, che l’ex direttore stava per proporgli un progetto. E che un tale progetto non era da prendersi alla leggera.
– Quanto al loro, di piano, credo che abbiate saputo decifrarlo subito dopo l’incontro col ministro dell’altro giorno, almeno nelle sue direttive essenziali. L’attuale disposizione del quadro politico presenta delle zone, in apparenza marginali, dove tensioni potenzialmente distruttive stanno concrescendo; una teoria politica molto in voga presso gli strateghi degli attuali detentori dell’esercizio del governo e della conservazione del potere (e della quale nessun politologo che venda la sua dottrina a cottimo troverà mai il coraggio di discutere in pubblico), sostiene che non c’è errore piú letale che rappresentarsi lo spazio politico come un piano cartesiano; esso, invece, va trattato come una specie di campo gravitazionale, capace di subire un improvviso sbilanciamento qualora si consentisse, a queste zone marginali, di accumulare un eccesso di peso.
Giunse il cameriere con una portata di vivande e del vino rosso, forte, che sprigionava il suo aroma mediterraneo provocando singolare contrasto con il contenuto del discorso di Drogo. Il quale, per pochi secondi sospese il corso delle sue riflessioni, onde poi riprenderle, giacché fu in quel momento che Drogo notò il libro di Valdo e, incuriosito, sbirciò la copertina, e ne lesse le righe di presentazione del testo in terza. Chiese di poter dare una scorsa al contenuto ma, dopo un paio di minuti di interessato esame, tirò un sospiro: – Una rete di potere che travalica i secoli, ecco cosa abbiamo di fronte, – disse. Quel sospiro avvertí Valdo d’una latente mestizia che accompagnava il giudizio dell’ex direttore sulla loro vicenda.
Senza che avessero potuto averne contezza dall’inizio, si trovavano ora al cospetto di un potere trasmesso elettivamente all’interno di una cerchia chiusa, che Drogo non avrebbe saputo concretamente definire, né tanto meno descrivere se non per sommi capi. La ricchezza era il carattere comune dei membri di questa strana congregazione a metà tra il club privato e la corte papale.
– Probabilmente, proprio la costruzione di potere del Vaticano è quella che tentano di scimmiottare... quel Vaticano che nel corso dei secoli hanno tentato di infiltrare... ma, e voi lo sapete: Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam...
...et portae inferi non praevalebunt adversum eam, pensò Valdo, stupendosi della deriva mistica delle considerazioni dell’ex direttore. In realtà, e Valdo avrebbe avuto modo di accorgersene con ritardo, non di misticismo si trattava, ma di un ordine di considerazioni ancor piú sottile, che andava cercato ed estratto dalla ricostruzione del racconto dell’evangelista, cosí come la corretta pronuncia dell’ebraico – per tradizione senza vocali – viene indicata dai segni diacritici aggiunti dai commentatori al testo del salmista. Valdo non poté impedirsi di pensare che la chiusa del lascito del Figlio al Pastore, che recitava: Et tibi dabo claves regni caelorum, poteva rappresentare, se adeguatamente interpretata, la soluzione del problema. Ma non si dà soluzione di problema senza corretta formulazione del problema stesso. E qual era questa formulazione? Che l’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio possedeva il mezzo del potere, non già il suo principio; un principio di fatto intrasferibile: depositato una volta per tutte, con regolare trasmissione, dal Figlio nella figura del Pastore, esso ne costituiva essenza ontologica, e non era piú possibile esternalizzarlo. L’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio doveva accontentarsi perciò (ecco la soluzione) della simia dei.
Risalendo dalle fosse abissali e quasi immote della tettonica a placche del potere all’orografia frastagliata del sistema trans-statale di potere e crimine nel quale erano calati e agivano da decenni, l’ex direttore cercò di precisarne alcuni punti salienti: – L’esercizio del governo dello stato e della conservazione del potere (che è cosa ben diversa dalla scienza politica che si insegna nelle università), nella versione oggi prevalente sostiene che l’accumulo di quantità discrete di queste tensioni può essere sopportato dalle capacità intrinseche degli assetti dominanti, ma con rischio virtualmente crescente: qualora una bastevole quantità di tensione sbilanciasse l’equilibrio consolidato, implicitamente si costituirebbero le condizioni per un cambiamento di assetto.
– Dunque – intervenne Valdo, – il ministro teme di essere disarcionato dalla sua funzione di comando sul quadro politico a causa delle pressioni che il blocco identitario, svolgendo in modo razionale la sua iniziativa politica, sta esercitando su tutta la nazione.
– Proprio quel che sta accadendo – annuí con un sospiro l’altro.
La defenestrazione di Drogo era perciò uno dei tasselli, forse tra i primi, di una contro-iniziativa che il ministro della Sicurezza nazionale aveva ideato per impedire il tracollo del suo sistema di esercizio del governo e conservazione del potere. Il sospetto di Drogo, che rivelò a Valdo, era già un primo discendere dal limbo alla sequenza dei gironi infernali.
– O meglio: nessuno è in grado di prevedere cosa potrebbe scaturire dalle iniziative del blocco identitario – aggiunse l’ex direttore dopo una breve pausa, ché stava mostrando di gradire le pietanze servite; – ma non è questo l’importante. Avendo di mira l’esercizio del governo e la conservazione del potere, e guardando alla teoria del quadro politico inteso come campo di molteplici perturbazioni possibili, nessun assetto di potere se ne può restare fermo e immobile. Gli assetti dominanti non rimangono mai fermi e immobili. Si condannerebbero, per questa via, al non-essere. A rientrare in quel non-essere da cui accidentalmente, neppure loro sanno come, sono sorti. Ecco spiegato il motivo che spinge l’assetto dominante guidato dal ministro a dichiarare una guerra occulta al blocco identitario.
– E con quali mezzi verrà esercitata questa guerra? – domandò Valdo, ormai a un passo dal poter contemplare la verità in modo prospettico.
– Credo che ora stiate capendo quel che ha cominciato da poco ad accadere, e cosa continuerà ad accadere. – La voce dell’ex direttore si fece grave di tono, e il volume era basso, perduto in un soffio. Disse: – Anche se la teoria da voi individuata dell’assassino solitario, il vostro Varna, fosse giusta, sta per diventare sbagliata.-
E questo era quel che Drogo temeva: nella disperata difesa del suo sistema di esercizio del governo e conservazione del potere, il grumo di interessi cristallizzatosi intorno alla figura del ministro della Sicurezza nazionale aveva ordito un progetto di sfruttamento parassitario del piano omicida di Varna; un piano che doveva progressivamente digradare dagli obbiettivi personali di Varna, trascelti nel novero dei funzionari che ne avevano segnato la disastrosa sorte, ad altri obbiettivi, meglio inquadrati nell’insieme di un disegno politico dal contenuto omicida addossabile a occulte frange eversive, fino ad allora sconosciute e inconfessate, ispirate dal programma politico xenofobo del blocco identitario.
– Del resto, – concluse Drogo, – se l’esercizio del governo e la conservazione del potere sono della stessa sostanza del non-essere, non c’è contraddizione con l’idea generatrice di questo piano: tutto appartiene al non-essere. A quanto ne so, voi siete uomo di letture filosofiche; credo che vi sia capitato di meditare su quel celebre passo di Parmenide: “Ed essi vengono portati avanti, muti e ciechi ad un tempo, gente indecisa, per cui l’essere e il non-essere è lo stesso e non è lo stesso, e per cui di ogni cosa v’è una strada che può esser percorsa in due sensi”.
Valdo aveva lungamente meditato il frammento B3 del poema Sulla natura, di Parmenide di Elea, nelle solitarie estati che trascorreva ospite nella residenza di campagna di un suo amico d’infanzia, l’antiquario Nartece. Ora, grazie alla collocazione del pensiero dell’antico eleate nel quadro di un complotto politico di alto livello, quella aurorale riflessione s’illuminava di una vivida ghirlanda di nuovi significati. In particolare, gli tornò in mente quel riferimento al sistema politico come non-essere, che non si poteva non accomunare ai “sentieri della Notte e del Giorno” menzionati al principio del proemio. Erroneamente si interpretavano le parole da Parmenide dedicate al non-essere: “L’altra è la via che non è e che è necessario che non sia, e questo, ti dico, è un sentiero inaccessibile a ogni ricerca. Perché il non-essere non puoi né conoscerlo (è infatti impossibile), né esprimerlo. Perché lo stesso è pensare ed essere”. Drogo lo stava avvertendo che si erano incamminati sul sentiero della Notte.

domenica 15 gennaio 2012

Il contesto. Una trascrizione (5)

– State raccogliendo prove contro la Chiesa del popolo mondiale?
– Diciamo che sto pazientemente componendo un dossier su questa strana congrega di filantropi. Quest’opera è per me cosí tanto importante, che pur di concluderla ho scientemente procurato le condizioni per favorire una mutazione genetica del mio stile. Sono l’unico caso di scrittore mutante che si conosca – concluse con una dose di amaro sarcasmo. – In una circostanza come questa, ispettore, – riprese dopo una breve pausa, – è d’importanza vitale saper temporeggiare. Attaccare padre Caviglia oggi sarebbe come suicidarsi, anche se non potete immaginare che voglia ne avrei! –. Ebbe un tremito. Stette immerso per qualche secondo in un profondo raccoglimento; poi disse: – Rammentate quel celebre pensiero filosofico che recita: “Cosí come la natura separa saggiamente i popoli, che la volontà di ogni stato, per giunta richiamandosi anche ai princípi del diritto internazionale, desidererebbe unificare sotto di sé con l’astuzia o con la violenza, allo stesso modo essa, d’altro canto, unisce anche i popoli, che il concetto del diritto cosmopolitico non avrebbe garantito contro la violenza e la guerra, tramite il reciproco tornaconto. È lo spirito del commercio, che non può convivere con la guerra, e che prima o poi si impadronisce di ogni popolo”?
Valdo lo rammentava: Kant, Per la pace perpetua, terzo articolo, primo supplemento, terzo punto. Era uno dei punti essenziali della teorizzazione kantiana: la pace perpetua favorita, caldeggiata anzi, dal commercio globale.
– Conoscete la ratio di questo testo, allora: seppellire i nazionalismi europei con circa un secolo d’anticipo sulle guerre che da essi scaturiranno. Se l’Europa del tempo avesse dato séguito al progetto kantiano, saremmo arrivati già da tempo ad avere un mercato transnazionale unificato; e conseguentemente, istituzioni politiche comuni. Dopo di che, il governo mondiale sarebbe faccenda di pochi decenni.
– Non scorgete in questo progetto una di quelle forzature della storia che producono piú problemi di quanti ne risolvono? – obiettò Valdo.
– Voi siete troppo hegeliano, credete ancora che esista una razionalità insita nella storia, un suo “dover essere”. Lo fui a mia volta, e i versi che avete letto ne rendono testimonianza. Ma osservate il teatro planetario cosí come si offre ai nostri occhi e ditemi: che cos’altro vedete, se non un apparentemente incomprensibile bailamme? C’è un solo modo di capirci qualcosa in questo rebus: seguire la logica del capitale. Se lo faceste, sareste già arrivato laddove gli strateghi della Chiesa del popolo mondiale arrivarono una quindicina d’anni fa: mercato transnazionale significa che tutte le produzioni umane, manuali ed intellettuali, sono valore di scambio, di conseguenza tutte possono sciogliersi nella forma di denaro. Grazie a questa analisi marxiana (peraltro elementare, direte voi, ché è sufficiente leggersi il primo libro del Capitale per giungervi), padre Caviglia intuí che non solo la guerra poteva piazzarsi sul mercato come valore di scambio, ma anche la pace. Scoprí anzi di piú: e cioè che quando si è ben decisi ad impiegare il tempo nell’accumulazione di danaro, non se ne trova a sufficienza per fare la guerra, e viceversa. Il tempo è come il capitale, è un bene di limitata disponibilità. Ma padre Caviglia, e soprattutto Laras, hanno capito il trucco, e non si può dire che non abbiano saputo metterlo a frutto. Il commercio! Ad un certo punto hanno scoperto che il mercato mondiale del capitale disponeva di una miriade di misteriose reti autostradali; percorrendole, il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci si dimostrava una realtà di questo mondo, non un’evangelica chimera, come nel profondo delle loro coscienze di atei sempre credettero. E dunque, puntarono tutto sulla “pace”, impegnandoci una massa di capitale a molti zeri; provate ora ad immaginare la loro meraviglia quando, impiegando quei fondi, se li vedevano restituiti moltiplicati dalle piazze finanziarie contro le quali sbraitavano nel corso delle loro allocuzioni straccione.
– Ma dove hanno reperito questi ingenti capitali da investire? – chiese Valdo.
Zosimo abbozzò un risolino, come a compatire quello scoppio di ingenuità. – In prestito, naturalmente. Non dimenticate, inoltre, che la Chiesa del popolo mondiale, nella sua qualità di organizzazione non governativa, consente a chi le intesta donazioni di ottenere notevoli vantaggi fiscali.
Nella mente di Valdo si accese la luce del giorno. Disse: – Quindi, se un finanziere devolvesse una certa somma di denaro a padre Caviglia potrebbe vedersela restituire su base allargata se egli fosse in combutta col destinatario della donazione stessa.
– Finalmente ci siete arrivato, ispettore. Ma perché parlare di combutta? Si tratta di affari, di quel commercio globale che, secondo Kant, è alla base della pace perpetua. Ecco perché Laras ama definirsi un sacerdote della pace, e divulga ad ogni piè sospinto l’utopia di Königsberg: ha capito che con la pace si fanno piú affari che con la guerra. Dovete ammettere che è un bel salto di qualità rispetto alla teoria classica della rivoluzione, quella che afferma essere la guerra il momento sublimante dello svolgimento della dialettica del capitale, giacché consente la massima accumulazione di plusvalore possibile. Queste erano le idee di Lenin, scarso lettore di Hegel: andavano bene per il suo periodo storico, ma oggi sono state irrefragabilmente sorpassate dagli imprenditori che investono e liquidano sul mercato mondiale della pace!... – si arrestò di colpo. – Ma stavo dimenticando la ragione che vi ha condotto fin qui, ispettore –. Ciò detto premette il bottone di un campanello elettrico, fissato alla scrivania in modo da non essere visibile a chi gli stava dirimpetto. Si sentirono rumori vari e tramestii provenire dal corridoio, quindi qualcuno bussò: era la governante pseudosvizzera. Zosimo la invitò a condurre nello studio l’ospite. Passò un breve frangente e si sentí di nuovo bussare alla porta. Zosimo invitò all’entrata, e sulla soglia comparvero le figure della governante, seguita a ruota da un uomo di alta statura, viso ascetico e tratti scavati, affilati. La governante si eclissò chiudendosi la porta alle spalle, e per un attimo Laras rimase al centro della scena, sotto la luce di un lampadario cromato.
Ostentava calma e sicurezza di sé, una specie di distacco da quanto lo contornava; qualcuno, mal conoscendolo, avrebbe potuto scambiarlo per alterigia, vecchia reminiscenza d’un patriziato sfiorito: in verità, si trattava di accorgimenti studiati. Non si poteva negare che Laras fosse capace di fascinare quanti gli stessero davanti: Zosimo, ad esempio, doveva lottare assai contro quel carisma naturale, pur rimanendo deboli le sue capacità di opporvisi. Egli sembrava aver smarrito tutta la iattanza poc’anzi esibita. Per parte sua Laras – forse intendendo qualcosa dei rancorosi moti nascosti nella psiche del suo ospite – era andato di proposito a sedersi proprio sotto il suo naso, manovra che sorprese e intimidí lo “scrittore mutante”.
– Potete cominciare il vostro interrogatorio, ispettore; ma lasciatemi prima esprimere il desiderio che si tratti di una conversazione informale: mi infastidirebbe dover ricorrere al telefono privato di questa abitazione per convocare qui il mio avvocato.
Questo secco preambolo colse Valdo di sorpresa, quantunque non gli giungesse nuova la tecnica di incutere un reverente timore al pubblico ufficiale spingendolo sulla difensiva con la scusa dell’ossequio del diritto alla difesa. Valdo pensò che quella rivendicazione quanto meno corriva, che egli sapeva essere prerogativa costante dei collettivi metropolitani organizzati, poteva essere considerata come indizio di un collegamento tra questi ultimi e la Chiesa del popolo mondiale: era probabile che disponessero di un ufficio legale comune.
– Non sono qui in veste ufficiale, signor Laras. Sto conducendo delle indagini, non potrei negarlo, ma ho chiesto di incontrarvi al solo scopo di rivolgervi qualche domanda confidenziale e riservata.
– Sa il cielo a che gioco state giocando; ma vi garantisco che non sono io che me ne vado in giro ad ammazzare giudici avvocati e sindacalisti.
– Non ne dubito – disse Valdo.
– Sentito? – scattò, rivolto a Zosimo – non ne dubita! Non siete granché convincente, ispettore. Sapete cosa credo, invece? Che stiate indagando per conto del ministero della Sicurezza nazionale, quando dovreste invece ritenervi alle dipendenze dell’ufficio del procuratore. Siete contro la legge.
Canis a non canendo! – tuonò ironicamente Zosimo. Poi, dopo aver taciuto per un istante, sentendosi gli occhi degli altri interlocutori addosso, in ispecie quelli niente affatto amichevoli di Laras, cosí dette seguito alla sua citazione varroniana: – Eccola la verità che non puoi dire: ti senti protetto dalla magistratura e per questo ti sembra strano che qualcuno indaghi su di te! Se lo fa, deve esserci lo zampino di qualcun altro.
Laras accusò il colpo: mai si sarebbe aspettato un simile attacco da Zosimo – quantunque fosse chiaro che non se ne fidava – e Valdo lo osservò mentre, con uno sguardo di fuoco, dava le mostre di voler incenerire lo scrittore. Questi, però, non se ne diede per inteso, sforzandosi di seguitare nell’esame di una pila di cartelle dattiloscritte come se niente di strano fosse accaduto.
– Perbacco, da quando te la intendi con gli sbirri? –. Poi, rivolgendosi all’ispettore: – Forse voi ignorate che il nostro anfitrione, a quanto pare sulla via di rifarsi una verginità, ha avuto i suoi bei trascorsi “rivoluzionari”… Ora capisco perché da qualche tempo ha preso a comportarsi come un congiurato; ma senza disporre dell’adeguata furbizia.
– Ma va’, tu e le tue fisime: saresti stato un eccellente soggetto di studio per il dottor Breuer! E pensare che Caviglia è stato tanto sciocco da mettere l’organizzazione nelle mani di uno che si legge la biografia di Berja per imitare la sua maestria nel fregare Stalin!
– Questa poi, io un Berja pronto a fregare Stalin? Proprio tu lo dici, mediocre borghese in procinto di piazzarsi come ideologo dei quaccheri del partito legge e ordine!
Poi, rivolgendo a Valdo un sorriso sardonico: – Stalin, per lui, sarebbe padre Caviglia.
Valdo annuí.
– In simili circostanze se la può cavare a buon mercato solo uno con la tua faccia tosta. Io sarei un borghese, un mediocre?
– Hai ragione, – proseguí l’altro, che stava cercando di recuperare l’abituale calma, – hai ragione: uno scrittorello di poco conto come te non merita che di essere definito come scarto di produzione dell’intellettualità antilluminista. Hai cominciato a scrivere anche tu una Imitatio Christi?
– Ah, questa è da ridere, dici a me intellettuale antilluminista! Ma basta leggerlo, il catalogo della tua casa editrice, per restare accecati dagli abbacinanti lumi che vi risplendono… i lumi del peyote!
– E difatti, finché ci terremo i tuoi libri e le elucubrazioni da intollerante che li popolano, saremo a rischio di vederci rivolta l’accusa di oscurantismo!
– Perché “intollerante”? – chiese Valdo, curioso. Gli premeva tra l’altro porre freno all’indecoroso scambio di contumelie.
– Già, perché? – rincarò la dose Zosimo. – A quanto ne so hai guastato la carriera di una mezza dozzina di giornalisti che avevano tentato di farti le pulci, tagli le teste dei dirigenti delle società dell’organizzazione come e quando ti pare, disponi di questo e di quello come un Saladino, eserciti un potere monocratico su di una plètora di quistioni su cui non vanti alcuna competenza tecnica come io non ho mai fatto, però io sono intollerante e tu no.
– Io esercito un “potere monocratico”, come dici tu, perché cosí esso incombe su di me. Sono chiamato a farlo, per la grande idea della pace mondiale. Tu, invece, sei intollerante qui – e si toccò il centro della fronte. – È la tua essenza.
Valdo, che si dilettava di filosofia, non ignorava quanto pericolose fossero le discussioni sull’essenza, perciò non si fece sfuggire l’occasione di chiudere quel capitolo (sorvolando sull’evidente contraddizione di un kantiano che ragiona di “essenze”), onde poter rivolgere a Laras le domande preventivate. Da parte sua, questi non si sentiva piú tanto sicuro di sé stesso; rispose in guisa alquanto particolareggiata, aggiungendo dettagli piuttosto che ometterli. Sulla via del ritorno, l’ispettore riordinava le idee: quando aveva affrontato il delicato nodo dei rapporti correnti tra la Chiesa del popolo mondiale e gli organi dirigenti del movimento dei collettivi metropolitani organizzati notò un irrigidimento di Laras: fu un attimo, è vero, ma bastevole ad insospettire Valdo, convincendolo che l’argomento poteva nascondere, per l’organizzazione di padre Caviglia, qualche remota insidia, se non addirittura un pericolo. In simili casi, un poliziotto che si rispetti sa che per provare l’esistenza di un collegamento tra due soggetti è buona norma investigare sui possibili (e anzi, probabili) canali di finanziamento in danaro. Ma questa era una incombenza del SIS. Riguardo alle eventuali “devianze” di taluni segmenti dei collettivi metropolitani, Laras non profferí parola; si disse scettico a quel proposito, e l’ispettore – il cui pensiero veniva a intermittenza catturato dal fantasma di Varna – si estraniò al punto di non udire piú il vaniloquio dell’emissario di padre Caviglia riguardo alla “generosità sociale” di quei ceffi drogati che frequentavano i collettivi. Dopo di che Valdo gli fece capire che se lui era in grado di esercitare una pressione su quelli, a che calmassero certi loro comportamenti “sopra le righe”, lo facesse: sarebbe stato meglio per tutti.
Due questioni erano in cima ai pensieri dell’ispettore: conoscere le reazioni di Laras immediatamente successive al loro colloquio “informale”, e soprattutto appurare il motivo (se mai fosse stato possibile) che aveva spinto Zosimo ad attaccare frontalmente il suo ospite, contravvenendo a quanto si era riproposto poc’anzi, in privato: che il suo sistema nervoso avesse ceduto di schianto? A ben vedere, ce n’era una terza: alludeva a qualcuno in particolare, Zosimo, quando faceva riferimento a misteriosi finanziatori della Chiesa del popolo mondiale? Che il celebre finanziere Schildroth fosse ospite del governo, proprio in quei giorni, non poteva costituire una traccia buona per indagare su alcuni strani movimenti che si potevano registrare nei palazzi del potere? Valdo ne avrebbe ragionato col direttore del SIS. Avevano pattuito di vedersi in una tranquilla e periferica trattoria, dove l’ispettore, che non era sposato, era solito cenare. Parlarono di lavoro desinando, e Valdo lo trovò gradevole: lui consumava i pasti sempre da solo. Chiese subito un corollario dell’intercettazione telefonica immediatamente successiva alla sua visita in casa di Zosimo, e il direttore del SIS gli ammanní il lungo elenco di lamentele profuse da Laras nel corso delle sue conversazioni.
– Appena vi siete allontanato – cominciò il direttore, – per prima cosa Laras si è gettato sul telefono chiamando il suo diretto superiore, padre Caviglia; questi non era presente in sede, sicché il nostro si è dovuto contentare della segretaria, cui ha affidato il compito di contattare con la massima urgenza il capo dell’ufficio legale. Questa richiesta sarebbe potuta sembrare sospetta, ma il seguito non ci ha recato ulteriore conforto, perché subito dopo ha contattato il direttore del periodico “Fratellanza popolare”, che ha svariate entrature presso i vertici della curia, quindi ha parlato per qualche minuto con Bolano, il conduttore del programma televisivo “Parole e immagini della democrazia”, lamentandosi molto: a entrambi ha riferito l’accaduto, cioè che la polizia, fuori dall’esercizio dell’azione penale, spettante per legge alla magistratura, stava indagando su fatti delittuosi attribuibili ad ignoti, ma da essa collegati senza prove all’attività dei collettivi metropolitani organizzati. Poi è stata la volta dell’amministratore delegato dell’Unione bancaria nazionale e del consigliere della Corte suprema Porzio (molto scandalizzato dall’avvenuto), della famosa creatrice di moda Karla, madrina della Croce rossa, infine della celebre e bella attrice Giovanna Midí, attiva sostenitrice del partito progressista transnazionale. Tutti hanno commentato il resoconto di Laras con ilare sarcasmo, tranne osservare, infine, quanto inefficienti siano e le forze dell’ordine, e gli uffici d’informazione, e quanto di scarsa lealtà verso le istituzioni democratiche.
– Insomma, sembra che abbiamo combinato un bel pasticcio.
– Diciamo che abbiamo gettato il sasso nello stagno e molte anatre hanno starnazzato.
– Già, ma prevedo che starnazzerà anche il ministro.
– È quello che temo.
Valdo osservò un silenzio durato qualche breve istante, poi domandò al suo interlocutore: – Che rapporti intrattiene padre Caviglia con questo establishment?
– Rappresentanze; e anche affari, immagino: per padre Caviglia le due cose spesso si confondono. La Chiesa del popolo mondiale è al centro di una ragnatela di iniziative (in gran parte all’estero, nei paesi del terzo e quarto mondo) di assistenza e soccorso, ed è anche accreditata a rappresentare varie altre associazioni presso l’Organizzazione unitaria mondiale. Ma sotto questa superficie indorata, ben pochi si sono arrischiati a indagare: sapete che non porta bene… –, come sostenuto da Zosimo, rammentò Valdo.
L’indomani, verso le dieci, il direttore del SIS telefonò a casa dell’ispettore: – Sono stato destituito dalla direzione ed assegnato ad altro incarico. Da noi è l’equivalente di una degradazione –. Valdo percepí una nota di malinconia incrinargli la voce.
– Hanno fatto in fretta a comunicarvelo.
– Sí. Ieri sera sono rientrato e ho trovato sulla segreteria telefonica la convocazione per oggi alle nove. Me l’aspettavo, ma non cosí presto…
– Che avete intenzione di fare, ora?
– Dovrò studiare un piano: sono abituato a portare a termine gli incarichi affidatimi.
– Se andate oltre rischiate grosso, potrebbero licenziarvi.
– Che ci provassero…
La venatura ricattatoria che, netta, traspariva da quella dichiarazione formulata di getto inquietò Valdo. Nel proseguire del colloquio telefonico, Drogo (così si chiamava l’ormai ex direttore del SIS) e l’ispettore combinarono un incontro di lavoro in un appartato ristorante.

Il contesto. Una trascrizione (4)

Lo scrittore Zosimo abitava in una villetta a schiera costruita ai margini di una zona invero un po’ fuori mano, in prossimità del cimitero monumentale centrale; questa caratteristica, lungi dal procurare sgradevole effetto al giro d’orizzonte che la cingeva, poneva l’abitazione nel mezzo d’una veduta invidiabile, garantita dal discreto altopiano che il progettista seppe sfruttare al meglio. L’estensione davvero vasta del cimitero, immerso in una severa e schematicamente disposta vegetazione, risvegliò, come una proustiana madelaine imbevuta di tisana di tiglio, un lungo, involontario flusso d’associazioni mnestiche nella coscienza di Valdo, che per un soffio non ne venne sopraffatto. L'ispettore suonò il campanello; venne ad aprire una signora di mezza età, dal portamento castigato, austero, quale ci si sarebbe aspettati di ritrovare nelle residenze dell’alta borghesia svizzera: ostensibilmente educata alla maniera antica, ella non commise antipatica scortesia lasciando l’ispettore ad attendere sulla soglia, ma correttamente lo fece accomodare in una sala d’attesa né piccola né grande, ricolma d’arredi e ninnoli rococò cui s’accedeva direttamente dall’atrio. La sosta non durò a lungo: la governante dalla lunga sottana inamidata venne a richiamarlo, scuotendone la sopraggiunta distrazione tra il bagno d’una ninfa in un Fragonard e un sofà tutto tarsie e codini. Lo studio in cui la governante lo stava introducendo con cinese cerimoniosità si mostrava ambiente alquanto raccolto, tale da svolgere, tra le altre funzioni, anche quella di biblioteca. Probabilmente veniva impiegato – grazie alla veduta d'insieme di una distesa agreste, offerta da una porta-finestra – come luogo di meditazione. Anzi, prendendo giudizio deduttivo dalla speciale illuminazione che da essa pioveva, parzialmente schermata da un tendaggio candido e di fine spessore, forse per Zosimo quel luogo assumeva veramente le fattezze di un ritiro spirituale. Popolavano però quella stanza molti oggetti, disposti senza un ordine apparente un po’ qua e un po’ là: tabacchiere di foggia ottocentesca, stampe di soggetto cimiteriale appese alle pareti, un planisferio, un modellino di sfera armillare, un lampadario cromato impossibile da non notare, addirittura due teschi che facevano da candelabri, e poi statuette d’animali leggendari come la manticora e il candido unicorno, un astuccio portapipe, un intarsio in argento raffigurante l’occhio di Horus – tutta roba, insomma, che non legava in niente con l’arredo dell’anticamera: sembrava d’essere in un mondo parallelo. Sullo scrittoio dietro il quale l’esile figura di Zosimo per poco non scompariva, facevano bella mostra di sé due lampade gemelle dalle vaporose volute liberty e scheletro in ferro battuto, assai eleganti, ma alle quali si doveva una razionalizzazione in senso borghese di quella che, pur tenendo conto delle dovute differenze, aveva tutte le sembianze di una Wunderkammer baronale.
– In cosa posso esservi utile, ispettore? – esordí con un franco sorriso di benvenuto l’omino smilzo mentre gli tendeva la mano. Valdo restò ammirato dal preciso servigio della governante, che aveva riferito al principale financo il suo grado.
– Ci risulta che un noto dirigente della Chiesa del popolo mondiale, trovi in questo momento ospitalità qui da voi – disse l’ispettore.
– Ah ecco, sí, immagino che stiate riferendovi al signor Laras. E come mai la polizia lo ricerca?
– A dir vero, non stiamo ricercando nessuno. Volevo soltanto scambiarci qualche parola in merito ad alcuni fatti.
– Scommetto che state pensando alla sequenza dei giudici e quant’altro ammazzati – azzardò l’ometto con un ghigno accennato, ma visibile, rivelando arguzia e rapidità d’intelletto. – Sospettate di Laras? È il cielo che vi manda!
– Vi ripeto che il signor Laras non è sospettato di nulla. Diciamo che appartiene ad un’organizzazione che negli ultimi tempi ha mostrato in ripetute occasioni comportamenti assai irrequieti.
– Ho capito, ispettore, ho capito tutto: voi (o, in subordine, i vostri superiori) paventate chissà quali turbolente degenerazioni di questa accolita di cialtroni che si riunisce sotto una denominazione cosí ridicolmente pomposa, specie dopo lo sciagurato patto di collaborazione con i cristiano-sociali, e siete venuto col capo cosparso di cenere a conferire con Laras per impetrare un soffio di moderazione.
– Vi sembra cosí ridicolo? – chiese Valdo, decisamente impressionato.
– Certo che è ridicolo! - sbottò l'ometto. - Come potete non considerare che feccia sia quella con cui vorreste spendere il verbo della ragionevolezza e della prudenza? Da quando questo isterico intellettuale fallito che è Laras è stato nominato direttore politico del movimento, egli non ha fatto altro che praticare la doppiezza come una verità evangelica: con tutti parla da moderato, poi spinge i suoi verso un estremismo crescente che non pare conoscere limiti. Lo seguo da un bel pezzo e so quello che dico, credetemi.
– Questo giochetto non potrà riuscirgli ancora a lungo, non trovate?
– Fossi in voi non ne sarei cosí sicuro –. S’appoggiò allo schienale della poltrona e socchiuse gli occhi. – Volete sapere cosa penso di tutta questa faccenda di cui, per mia sventura, sono costretto ad occuparmi? –. Valdo intuì che lo scrittore voleva regalarsi una qualche velenosa ritorsione sul suo ospite: l’occasione non poteva andare sprecata. – Penso che non riuscirete nel vostro intento; e chi, nel governo, riveste cariche di responsabilità non potrà né saprà opporsi a questa marea che monta. Voi (o meglio: i vostri superiori), le vostre istituzioni, quelle che una volta si chiamavano “istituzioni dello stato borghese”, siete deboli: loro questa vostra debolezza conoscono e sfruttano; eppure, è sotto i vostri occhi: come vi accennavo, Laras sposta continuamente questo limite estremo delle sue pratiche illegali verso l’alto, impercettibilmente; e, ad ogni spostamento, la vostra debolezza si accresce, perché la polizia, invece di intervenire a che si ristabilisca lo statu quo ante, non essendo la trasgressione macroscopica, preferisce rimandare i provvedimenti necessari, nell’illusione di salvare capra e cavoli.– Zosimo tirò il fiato; lanciò un’occhiata all’indirizzo dell’ispettore, come per osservarne le reazioni. Poi proseguí: – Essi sanno che chi detiene il potere, davanti alla minaccia di perderlo per intero, preferisce accordarsi e spartirlo, e sanno anche che chi oggi lo detiene, lungi dall’essere un vero potente, è solo l’amministratore delegato di un invisibile comitato d’affari: perciò, essi mirano a sostituire l’attuale consiglio d’amministrazione. Ma guardate che progetto geniale: stanno trasformando il potere politico in una public company. Non ne reclameranno, almeno per il momento, la proprietà: si accontenteranno della gestione.
Valdo aveva ascoltato quel ragionamento assorto in concentrazione quasi perfetta. Le parole conclusive del discorso del ministro gli affollarono di nuovo la mente. – Immagino che abbiate fondati motivi per pronunciare giudizi tanto duri sull’organizzazione di padre Caviglia.– L’ispettore cercò di imbeccare alla cieca Zosimo.
– Fondati motivi, dite voi? –. Abbassò il volume della voce, temendo l’indiscrezione di qualche origliante. – Detto tra noi, io padre Caviglia non l’ho mai potuto soffirire, con quella sua aria da Rasputin fuori dalla storia… Non ne ho le prove, ché altrimenti saprei come regolarmi, ma di rimbalzo mi è giunta la voce che Caviglia e Laras, coi loro sodali dei cristiano-sociali, abbiano stretto un’alleanza con i collettivi metropolitani organizzati, gente che sguazza con disinvoltura nell’illegalità legalizzata e fabbricata dal ceto politico. Siete a conoscenza del fatto che questi sacerdoti della pace mondiale hanno avviato un commercio a prezzi stracciati (li chiamano “prezzi sociali”, gli imbroglioni!) di immobili espropriati per pignoramento? Le licitazioni sono pubbliche per modo di dire: l’esito è predeterminato.
Valdo provò turbamento. – Questo è un reato molto grave: chi ve ne ha messo al corrente non dispone di prove?
– I circoli criminali non si lasciano alle spalle documenti scritti: l’esempio dei Protocolli dei savi di Sion sarà valso a qualcosa, non credete?
I Protocolli? che voleva suggerire, con quel riferimento, Zosimo? L’ispettore volse il pensiero per un breve frangente a quella allusione, poi lasciò correre: forse era un dettaglio senza importanza, e lui voleva profittare dell’improvvisa propensione alla delazione del suo interlocutore. (Improvvisa nemmeno molto: quella era l’occasione che Zosimo stava segretamente aspettando da chissà quanto tempo.)
– Non verrete a dirmi che sprechereste il vostro tempo con simili bazzecole, ispettore: siatene certo, non ne varrebbe la pena. C’è dell’altro da scoprire.
A Valdo vennero i sudori freddi. – Dell’altro? A che vi riferite?
– A fatti di gran lunga piú gravi, almeno nella considerazione di qualcuno di noi, che abbiamo creduto troppo a lungo in quella finzione che si chiama stato. Non includo in questo fascio di poveri illusi, potrete immaginarlo, la scaltra cricca di padre Caviglia, e specialmente Laras, che è un doppiogiochista, e fors’anche un triplogiochista, dal momento che gli preme soltanto il suo interesse privato. Diciamo che questa Chiesa del popolo mondiale si comporta come una di quelle opposizioni cucite su misura di taluni potentati internazionali, la cui identità credo non vi sfugga. Ma c’è di piú: esistono istituti di ricerca psichiatrica, in buon numero, che hanno infiltrato tra le disordinate fila degli antagonisti globali agenti provocatori allo scopo di studiare l’evoluzione dei quadri psichici di massa, delineatisi in seguito a disordini dalle conseguenze molto gravi.
– E sospettate che Laras sia uno di questi agenti provocatori?
– Soltanto il sospetto, natürlich; ma non limitatamente alla semplice figura di provocatore. Lo definirei, invece, un manovratore di medio livello.
– Perché non ci scrivete sopra un libro? Prendendo le dovute precauzioni, ovvio. In fondo, la vostra fama di scrittore civile è acclarata.
– Io uno “scrittore civile”? Suvvia, ispettore, non prendetevi gioco di me. Io sono un vaso di verità, un “profeta”. E come tutti i profeti, vado narrando avvenimenti futuri quando il gregge del Signore non si avvede di quel che gli succede intorno ed è sull’orlo del baratro. Il blocco identitario moltiplica i suoi voti ad ogni giro elettorale; presto gli verrà facile influenzare le forze politiche del centro moderato: l'ombra di guerre interetniche grava minacciosa su tutto il continente. E che fanno, nel frattempo, i contestatori “globali”? Espropriano fette sempre piú consistenti del patrimonio dello stato, si ubriacano e si rivoltano come maiali nell’orgia delle loro miserabili feste pseudopagane, si guadagnano antipatia e ostilità tra quelle che una volta si chiamavano masse spoliticizzate, e in occasione dei loro comizi scatenano quella volontà distruttiva che voi conoscete, spalancando davanti ai nostri occhi la visione di un terrificante abisso di nichilismo.
Per lunghi istanti s’immerse in una meditazione che sembrava presentare, a tratti, il carattere dell’ansia repressa; poi si riscosse, acquistò nuovamente lucidità e con rapido gesto aprí un cassetto dello scrittoio, da dove trasse una cartella fittamente dattiloscritta.
– Guardate un po’ qui, è da ieri sera che ci lavoro. Sono versi, li ho scritti di getto, proprio io, che ho sempre considerato la Dichtung un’impostura verso la scienza, e che non ho mai avuto orecchio per la metrica…
Valdo prese il foglio che l’altro gli porgeva e si gettò a leggere.

I vostri cenacoli e le agape da confraternita del basso spirito
li celebrate laddove non può raggiungervi nessuna sezione dell’Ochrana:
in grotte, o meglio in fogne;
e bevendo sangue da teschi muffiti
allietano la vostra genetica psicosi i canti che credete di Esther e di Eva Frank.
Ma nella dottrina che professate – e che segretamente, tra di voi,
senza umorismo chiamate teologia –
nulla si propaga dell’antica setta gnostica che adorò il serpente,
giacché le donne del vostro fornicare non sono né Esther, né Eva Frank
ma luride puttane giudee leste a farsi succhiare le mammelle dai goym
per la salvezza di Israele,
e su cui nulla piú distinguono i vostri cervelli
bruciati nel braciere dell’acido lisergico,
soggetti di studio in formalina per l’ufficio scientifico
della Drug enforcement administration.
Ma voi, nervosi adepti di Nostra Signora della cannabis,
quando avrete smesso di cibarvi delle acide secrezioni
spremute da quei detriti che compongono il vostro ginecèo accattone
vi ritroverete tra le mani meno, molto meno di un pugno di mosche,
come accadde al sacro buffone Aleister Crowley
dal quale prendeste le mosse con lo scopo (nemmeno molto nascosto)
di incenerire l’ultimo barlume di realtà nelle vostre menti svaporate.
Come già Hegel vi dimostrò,
l’autocoscienza vaga per illusori universi e artificiali
se dapprima come coscienza non si àncora solidamente agli oggetti:
al cristallo del tuo calice dal quale a sera bevi il porto,
o alla rosa che da poeta canti,
ma che prima essiccasti in composizioni floreali e pot pourris,
al latte della capra che tu stesso mungi
e alle doghe del soffitto da cui pendono, odorosi, i rami del timo e della lavanda.
Non c’è presente né vita futura senza la costante abiura dell’imbroglio cronografico,
senza la tradizione dei padri, che avete disconosciuto,
senza il sangue e il suolo in cui si continuano gli antenati,
la loro postuma intelligenza delle cose.
Che ribatterete quando la storia da voi ripudiata
vi chiamerà al redde rationem,
e toccherete con mano che a voi, proprio a voi,
capitò in sorte di vivere la terra sconsacrata
come un inutile battaglione di ultimi uomini
beffati dalla maschera nuda dell’impuro folle di Sils-Maria?

Terminata ch’ebbe la lettura, Valdo rimase come inerte sulla poltrona, incredulo della terribile violenza di quei versi, ma anche preoccupato da certi esoterici messaggi in codice che percorrevano tutta la composizione. Da macht ein Hauch mich von Verfall erzittern (“Ed ecco, un alito mi fa tremar di sfacimento”, Trakl). Decise di mantenersi su una linea sobria di giudizio.
– Notevoli. Li pubblicherete?
– Volete scherzare? – quasi gridò Zosimo. Afferrò la cartella dattiloscritta che l’ispettore aveva depositata sul ripiano della scrivania e la chiuse a chiave nel cassetto da cui n’era stata tratta. – Basterebbe che Laras o qualcuno dei suoi scagnozzi ne subodorassero l’esistenza e per me sarebbe finita… –. Improvvisamente si rabbuiò. – Ricordate il caso Durant, della “Gazzetta della notte”? –. Zosimo alludeva ad Amerigo Durant, il giornalista che per aver pubblicato sul suo giornale una coraggiosa inchiesta, riguardo a taluni misteriosi finanziamenti internazionali concessi ad una società collegata alla Chiesa del popolo mondiale (benché siffatto collegamento non si riuscí mai a provare), cadde in guai giudiziari molto seri; e la “Gazzetta della notte” ebbe a chiudere una serie interminabile di controversie legali solo dopo avere “allontanato” Durant. Nessuno lo scrisse, ma tutti sapevano che a quell’operazione non era estraneo il potente ufficio affari legali di padre Caviglia. – No, – tagliò corto Zosimo, – non è ancora giunto il momento di uscire allo scoperto.

martedì 10 gennaio 2012

Il contesto. Una trascrizione (3)

L’indomani, Valdo avrebbe dovuto presentare una relazione confidenziale, il cui contenuto sarebbe stato stenografato, secretato e rinchiuso nell’impenetrabile archivio del SIS. Nel corso di questo incontro in quegli uffici, espose dunque i risultati della sua indagine al direttore del servizio, che gli stava di fronte; Valdo sapeva che il tutto sarebbe stato riferito al ministro, ed era del resto quel che sperava. Generalmente, le indagini a sfondo politico serbano spiacevoli sorprese agli investigatori, e spesso si incade, in tali occasioni, in tremendi viluppi di noia.
– Indubbiamente, il vostro lavoro presenta tutti i caratteri dell’indagine seria, rigorosa, – osservò con apparente noncuranza il direttore del SIS, mentre scorreva le cartelle dattiloscritte del rapporto dell'ispettore, – però lo trovo anche, come dire, poco produttivo, non so se mi capite… –. Valdo aguzzò le orecchie. – Io gradirei molto, invece, che voi – proseguí il direttore – andaste quanto prima a rendere una visitina in casa dello scrittore Zosimo, dove dovrebbe trovarsi a guisa di ospite Laras, il segretario generale della Chiesa del popolo mondiale, l’organizzazione di padre Abraham Caviglia (segretario e, a sentir certe voci, suo dominus).
– Perché, cosa vi aspettate che n’esca fuori? – domandò Valdo.
– Non si sa mai, smuoveremo le acque. Quei tipi non mi piacciono. Negli ultimi tempi, i cristiano-sociali hanno stretto alleanze ancora piú salde con i collettivi metropolitani organizzati; noi li teniamo d’occhio –. (I cristiano-sociali erano, tra tutte le correnti del partito religioso moderato, quella niente affatto moderata, e rappresentavano in parlamento le idee e gli interessi, e questi ultimi specialmente, della Chiesa del popolo mondiale.) – Come saprete, chi preoccupa di piú il ministro è il blocco identitario, ma quelli per il momento sembrano essere “in sonno”, per dir cosí. – Valdo colse l’umorismo involontario implicito in quell’ultimo richiamo al gergo massonico. Che il direttore fosse un libero muratore? – Resta inteso – continuò costui – che quand’anche il ministro, dopo avervi dissuaso dal proseguimento delle indagini a carico del vostro fantomatico Varna, vi sconsigliasse di indagare in direzione dei collettivi metropolitani per orientarvi verso il blocco identitario, voi continuerete a seguire le nostre direttive –. Intendeva le direttive del SIS.
– E come mai voi, diversamente dal ministro, vi interessate con piú premura ai collettivi metropolitani organizzati che al blocco identitario?
– Be’, il ministro è un politico, no? Non è molto incline a disturbare di questi tempi il partito progressista internazionale, che copre i collettivi. Peraltro, ho inteso che questo partito sarebbe l’unico soggetto politico capace di rinsaldare il governo tenendo a bada la marea montante di questi straccioni scatenati, ma questo è solo calcolo politico.
– Ho l’impressione che nemmeno a voi faccia difetto il talento per questo tipo di calcoli – rilevò Valdo.
Il direttore del SIS sembrò compiacersi di quella definizione, o almeno cosí parve al suo interlocutore.

Il ministro della Sicurezza nazionale stava conferendo con il capo del servizio segreto civile in quello che si usava chiamare il lunch del giovedí sera. Si ritrovavano in una saletta privata di un non grandissimo ristorante dietro la piazza del parlamento, e a poche decine di metri di distanza dal palazzo del governo. Le faccende di cui discorrevano, stante il loro carattere estremamente riservato, imponevano che si valutasse con attenzione il ruolo e l’indole dei commensali che si volevano invitare; in ciò, il ministro seguiva indefettibilmente il suo personale criterio di opportunità. Ma, dopo anni di esperienza e conoscenza della macchina dello stato, e soprattutto dei modi, talvolta bizzarramente articolati, con i quali le sue funzioni erano state suddivise, in quest’arte egli aveva raggiunto una perizia che si poteva onestamente definire insuperabile, e fino ad allora insuperata. Da qualche tempo, in quella club house del giovedí sera, il ministro aveva cominciato ad accogliere gli alti quadri del partito progressista internazionale; una volta li aveva addirittura invitati insieme con i vertici degli stati maggiori riuniti, che era un po’ come mettere alla stessa tavola il diavolo e l’acqua santa: eppure, non si erano prodotti sconquassi, o peggio fenomeni esorcistici, e la serata s’era conclusa in una atmosfera di simpatico cameratismo, se non quasi di goliardia, sorbendo il caffè alla nocciola e lo sherry secco della casa. In un’altra occasione, ospite d’onore, oltre al segretario del partito progressista internazionale, Rubio, era stato il celebre Magyar Schildroth, e per tutto il tempo si era ragionato di finanza internazionale e sistema dei regolamenti interstatali. Rubio aveva preso la palla al balzo, confessando a Schildroth che al suo partito, dal bilancio non piú solido come ai bei tempi, occorreva proprio un sapere scientifico (nel gergo di Schildroth si diceva know-how) pari al suo (di Schildroth) onde ristrutturare l’esposizione totale con le banche, eredità della precedente, dissennata gestione finanziaria (oltreché politica, lasciò intendere) del partito.
Un finanziere della levatura e del fiuto di Schildroth, con naturali propensioni verso la politica, non poteva certo farsi sfuggire una simile occasione di mettere il cappello sul “sistema circolatorio” di un partito che ancora non era di governo, ma era come se già lo fosse. Il ministro della Sicurezza nazionale, ovviamente, era a conoscenza di quella delicata situazione finanziaria, e già prevedeva quale sarebbe stata la scappatoia per aumentare le entrate del maggior partito di “opposizione”: fondare in primo luogo una serie di associazioni non governative alle quali concedere appalti pubblici particolarmente remunerativi, cosí da risolvere la grana piú spinosa (ossia la cronica scarsezza di liquidità) che attanagliava il partito già da un paio d’anni; in secondo luogo, contrattare con le banche il tasso d’interesse passivo, scambiandone l’abbassamento con il sostegno alla riformulazione della legge bancaria che, di lí ad un anno, sarebbe transitata dal palazzo del governo al parlamento.
– E dunque, – esordí confidenziale il ministro nel corso di quella serata, – secondo voi come dobbiamo muoverci con Valdo? Insiste con la sua caccia all’assassino solitario?
– Purtroppo sí, eccellenza. Ho provato a prenderlo in contraddizione in uno dei nostri ultimi incontri, che come sapete sono periodici, ma ha una risposta per tutto.
– Alludete a quella strana storia dell’associazione per l’espatrio “lieto”?
Il direttore del servizio segreto annuí.
– Il governo è dell’idea, invece, che questa situazione spiacevole sia stata favorita dalla strategia populistica e xenofoba del blocco identitario. Sono loro che stanno destabilizzando il quadro istituzionale. Certo, e voglio anticiparvi, non sono tanto matto da lasciar circolare l’idea che di questa mattanza se ne debba far carico direttamente al signor De Vlam e soci. – (De Vlam era il segretario politico del blocco identitario).
– E quindi?
– E quindi, voglio dire che noi gli omicidi potremmo pure vederli scaricati su quelle dannate formazioni di peones dei collettivi metropolitani organizzati (quantunque non sia una cosa tanto facile come poteva esserlo vent’anni fa), poi ci penseranno quelli del partito progressista internazionale a mettergli la mordacchia, assieme ai confratelli dei cristiano-sociali; ma noi dobbiamo vedercela con quelli del blocco identitario. Loro sono gli unici che possono scombinare i nostri piani.
Il ministro, tracannando l’ultimo bicchierino, si fermò una manciata di secondi a pensare. – Convocate l’ispettore Valdo nel mio ufficio per domani alle dieci – disse col tono di chi vuol tagliare corto e non ammette che ci si perda in repliche.

Il direttore del servizio segreto aveva avvertito per tempo Valdo, sicché entrambi s’incontrarono al ministero, laddove convenuto col ministro, alle dieci in punto. Il direttore avrebbe preferito non dare mostra del nervosismo che s’era impadronito di lui, ma non vi riuscí che a fatica. Egli temeva che l’ispettore potesse ottenere di convincere il ministro circa la bontà della sua teoria dell’assassino solitario, cosa che avrebbe significato un ridimensionamento dell’ufficio del servizio informativo riguardo a quel caso. Non che il direttore paventasse rammollimenti improvvisi del ministro: piú semplicemente, non si fidava appieno di lui. Fin dall’insediamento di quello ch’era a detta di tutti uno dei piú scaltri uomini politici di quella generazione, il direttore aveva nutrito pesanti sospetti ch’egli volesse accentrare negli uffici del ministero della Sicurezza nazionale tutta la catena di comando delle istituzioni piú delicate dello stato, tenendo in tal modo al guinzaglio il SIS. Una cosa simile non si verificava da quando, diversi anni addietro, s’era tentato di mettere mano alla riforma dei servizi d’informazione; ma la struttura che “vigilava” sulla politica – grazie, in particolar modo, alla capace regia dei suoi vecchi comandanti, ricattatori provetti – era riuscita a sventare quel disegno pericolosissimo, mettendo a disposizione dei ministri che alla Sicurezza nazionale si succedevano consistenti fondi extra bilancio, suggellando in tal guisa non tanto una pace, quanto una conveniente tregua: base fondamentale, piú che di un reciproco rispetto, o timore, di una sensata e razionale spartizione del controllo della catena di comando della parte piú inconfessabile della vita istituzionale. Ora, suo compito era badare alla grana che Valdo rappresentava. Ma, nel frattempo, il direttore del SIS avrebbe continuato a raccogliere segretamente informazioni sul conto del ministro.
Il qual ministro li accolse all’ora convenuta con ilare espressione, felice di vederli, di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno che non fosse uno di quei grigi burocrati da cui si vedeva attorniato al ministero. Appena entrati, furono condotti davanti al minibar, l’unico mobile del suo ufficio da cui non si sarebbe mai separato.
– Allora, ispettore Valdo, come sta il vostro assassino… aspettate, com’è che si chiama? Ah sí, Varna se non sbaglio, vero? –. E nel frattempo celiando, riempiva tre calici ghiacciati dalla campana molto larga con un aperitivo color rosso rubino da lui stesso miscelato.
Valdo tacque; accettò il bicchiere che il ministro gli offriva.
– Ma vedete, ispettore, io desidero che voi non vi facciate l’idea che, sfruttando la mia autorità, io voglia gettare disdoro sulla vostra indagine; però noi, attualmente (e quando dico “noi”, potete immaginarvelo, sto alludendo allo stato), abbiamo da rispondere ad una imperativa istanza: il nostro paese deve schivare un pericolo mortale, che vi esporrò con una formula secca ma, direi, efficace: la vita delle istituzioni è minacciata seriamente dall’attacco combinato degli xenofobi del blocco identitario, da un lato, e dei quadri dirigenti dei collettivi metropolitani organizzati dall’altro, e questo proprio nel momento storico in cui le centrali internazionali che si occupano di valutare il rischio degli investimenti in titoli dei debiti pubblici sovrani ci stanno incalzando. In una siffatta congiuntura, non credete che sarebbe cosa buona e giusta mettere quel poveraccio fallito del vostro Varna in sala d’attesa?
Valdo gli gettò uno sguardo incredulo nel mentre che degustava il cocktail; il ministro non diede mostra di aver compreso la natura di quell’occhiata, dietro la quale si nascondeva, nel mezzo di una frotta di domande sconvenienti, l’originaria vocazione alla verità di un poliziotto ch’era rimasto sempre un poliziotto, nonostante le promozioni. Il ministro li prese tutt’e due sotto il braccio, conviviale.
– Vogliate scusare, eccellenza: ma non credete che gl’investitori dei mercati finanziari internazionali resterebbero meno scossi, sapendo che la mattanza di giudici e quant’altro è dovuta all’attacco di follia di un disperato, e non ad un magma rivoluzionario pronto a far esplodere la nazione da un momento all’altro?
Il ministro accusò il colpo; ma in un batter d’occhio si riscosse.
– Avete ragione, ispettore, l’acume non vi manca… ma vedete, – riattaccò con un filo di voce; Valdo intuí che la partita andava schiarendosi – in questo momento non abbiamo interesse a disturbare le intemperanze dei collettivi metropolitani: il direttore del SIS è già al corrente di ciò, quindi dovrete raccordare le vostre indagini. In un certo senso, se volessimo usare il gergo degli strateghi militari dell’ottocento, ci proteggono il fianco sinistro, lo anestetizzano con quella specie di guerriglia nella cui arte eccellono facendo un baccano infernale. Voi non ci crederete, ma abbiamo trovato il modo per far sí ch’essi siano i controllori di sé stessi, e che tutto quel disordine che la borghesia produttiva trova tanto fastidioso, e teme, garantisce al contrario un ordine ferreo: il frastuono rimane cosí una frangia poco movimentata della superficie, e dove siamo noi (le istituzioni, voglio dire) ne giunge appena una impercettibile eco. Guardate invece quel fanfarone di De Vlam: ha un bel parlare, lui, di democrazia diretta, e magari crede veramente che esista un popolo in grado di governarsi senza istituzioni specializzate. Lui non va cianciando di case sfitte da requisire ai borghesi che ne hanno due, ma vagheggia la modifica della composizione “etnica” della Corte suprema e della camera alta, volete mettere la differenza? Inoltre, i collettivi metropolitani organizzati non sono soltanto i controllori di sé stessi, ma funzionano come un vero corpo di polizia: pattugliano il territorio, ne conoscono l’angolo piú nascosto e sfuggente e lo sorvegliano; col tempo, potrebbero instaurare un ordine che non è il nostro, che non è “istituzionale”, per esprimerci in guisa conveniente, è vero; però ci faranno risparmiare sui costi, e quando in un prossimo futuro riveleremo questo particolare all’opinione pubblica, essa sarà perfino felice di rispondere ad un’autorità di polizia cosí variegata e multicolore! Certo, già chiedono qualcosa in cambio: loro le chiamano “zone temporaneamente occupate”; ma non mi sembra una congrua esosa, e finché il loro linguaggio scambierà il temporaneo col permanente, essi non saranno nulla di diverso da noi, anche la loro lingua sarà la lingua della doppiezza, e sarà come se parlassero il francese alla corte degli zar. Inoltre, particolare vi giuro niente affatto trascurabile, saprete certamente come la magistratura guardi di buon occhio questi collettivi, e nemmeno ignorate quanto il mio partito debba alla magistratura: nel tempo in cui l’operazione Porta di Babilonia era appena alle battute iniziali, ce la siamo vista brutta; soltanto in seguito potemmo capire che si trattava di una manovra diversiva diretta contro l’ascesa irresistibile del blocco identitario nei cantoni occidentali, e che minacciava di sfondare anche nel resto della nazione (figuratevi se avessero preso il comune della nostra capitale!); ora con l’organo di governo autonomo della magistratura è tutto chiarito, e abbiamo capito quello che si aspettano da noi. Ora, al posto dei vecchi dirigenti c’è un’altra schiatta di illuminati…
Appena fuori dall’edificio in travertino del ministero, avendo l’imponente colonnato d’ingresso alle spalle, e nel mentre che Valdo trovava ancora difficoltà a considerare reale quel colloquio col ministro, il direttore del SIS “corresse” il compito affidato all’ispettore: – È bene che i “controllori” dei collettivi metropolitani organizzati (il ministro ha detto lo stesso, ma intendendo il genitivo come soggettivo; noi lo trasformeremo seduta stante in oggettivo), dei quali non possiamo fidarci, controllino le loro pattuglie, e per ottenere questo voi nel pomeriggio andrete a conferire con Laras.

sabato 29 ottobre 2011

Il contesto. Una trascrizione (2)

Un altro incarico, senza che lo volesse, gli era però piombato addosso: mettersi al piú presto in contatto con quel Futro, l’operaio che aveva trascinato Varna in tribunale, perché stava per scattare l’ora del suo appuntamento con la morte. Ma quando Valdo era appena giunto, trafelato, nel palazzo dove dimorava il SIS, e chiese di poter conferire immediatamente con il suo diretto superiore – ch’era anche il capo della suddetta struttura informativa – il commentatore del radiogiornale stava annunciando, dall’apparecchio acceso sul tavolo di un agente di fronte all’ufficio del funzionario, che proprio a Svaro era stato rinvenuto, in un fosso della periferia settentrionale, il corpo senza vita di un certo Futro, crivellato da colpi esplosi da un'arma da fuoco a ripetizione (quindi non con la Beretta sette e sessantacinque utilizzata per gli altri delitti).
E dunque, pensò Valdo, quel furbacchione di Varna aveva proprio al momento giusto cambiato modo di uccidere: se avesse liquidato Futro con la stessa tecnica degli altri, la polizia sarebbe stata messa nelle condizioni di risalire facilmente fino a lui; quel diversivo, invece, gettava un’opportuna cortina di fumo sul suo piano criminoso, che forse era giunto, con l’assassinio di colui che l’aveva trascinato al cospetto dei suoi carnefici in toga, al punto finale dell’esecuzione, e quel cambiamento serviva a guadagnare un po’ di tempo. Ma Varna risultava ancora invisibile, uno spettro: come poteva, egli, muoversi tra le maggiori città della nazione, soggiornare negli alberghi e registrarsi, rimanendo di fatto invisibile? Fino a che Valdo non avesse risolto questo enigma, il ministro della Sicurezza nazionale, e di rimando il direttore del SIS, non lo avrebbero preso in considerazione, ritenendo piú promettente trovare rifugio sotto il confortevole ombrello delle fazioni terroristiche in lotta contro lo stato, a giustificare la mattanza di giudici e professionisti. (Il ministro della Sicurezza nazionale apparteneva alla corrente liberale del partito religioso moderato, e aveva avuto in passato rapporti burrascosi col partito progressista internazionale, rapporti che, negli ultimi tempi, erano però nettamente migliorati, da quando aveva fatto la sua comparsa sulla scena politica e parlamentare il blocco identitario.)
La risposta non tardò ad illuminare il faticoso arrovellarsi di Valdo. Era andato a trovare l’unico amico, o conoscente, col quale negli ultimi tempi Varna aveva avuto quello che poteva dirsi (forse) uno scambio di confidenze. Questo conoscente, suo vicino di casa, si chiamava Menfi, ingegner Menfi, e possedeva la villetta piú vicina a quella di Varna. L’ingegnere parve a Valdo stranamente loquace, quantunque le informazioni realmente interessanti che ne poté cavare furono davvero poche, eccettuata una. Era palese che reagiva a quel modo per atavico timore dell’autorità.
– È che Varna non si sbottonava poi cosí tanto – si giustificò l’ingegner Menfi. – Sembrava che volesse ricoprire la sua esistenza personale al di sotto d’una coltre capace di renderla invisibile. Ho sempre sospettato che la sua vita fosse piuttosto arida: mai una visita, niente amici, donne neanche a parlarne, figurarsi: quando il discorso cadeva lí, abilmente manovrava per distogliernelo. Inoltre, anche se non ne dava le mostre, era un uomo molto diffidente.
– Come faceste ad accorgervene?
– Ero curioso di sapere cosa gli passasse per la mente; pareva sempre cosí malinconico. La vedete quella staccionata? Ebbene, c’erano occasioni che vi si appoggiava, o vi si sedeva a cavalcioni, e stava per intere mezzore a fissare il tramonto. Quando, incuriosito, gli chiesi motivo di quello strano comportamento, mi rispose con parole incomprensibili: “È una metafora. Bisogna che qualcosa declini affinché un’altra possa nascere”. Poi, qualche giorno dopo, discorrendo si finí ad una specie di gioco: immaginare, cioè, vite alternative in altri paesi, dove nessuno ti conosce… Fu a quel punto che gli sfuggí di quella società che organizzava espatrî “lieti” (usò proprio questo aggettivo), in qualche paese esotico, ma sembra che la società in questione chiedesse rette d’iscrizione alquanto salate.
Da questo colloquio era emerso che Varna aveva contattato – o aveva pensato di contattare – una società specializzata nel rinvenimento di una sistemazione in qualche luogo straniero. Se cosí stavano le cose, la pressione emotiva che ogni giorno egli era costretto a sostenere andava facendosi sempre piú insopportabile: Varna era sull’orlo del cedimento psichico. Tra le altre cose piú o meno di contorno, l’ingegner Menfi rivelò all’ultimo l’unica informazione che contenesse un qualche elemento probatorio: quando stava per congedarsi da Varna, una sera ch’era stato a trovarlo a casa sua, dopo un paio d’ore di conversazione, l’occhio gli era caduto su di un rettangolino di carta giallastra che fuoriusciva di poco dai fogli di un’agenda, sulla scrivania. Varna era andato a cercare un libro di là, in camera sua. – Liberai il frammento di carta dalla presa dei fogli dell’agenda, e mi accorsi che si trattava proprio della reclame pubblicitaria di quella associazione del lieto espatrio; inoltre mi accorsi che era stato ritagliato dalla guida telefonica delle società commerciali. Rimisi tutto a posto. Poi, quando fui di nuovo a casa, per prima cosa presi la mia copia della guida, e non impiegai molto a trovarlo. Eccolo qui – disse poi, estraendo il rettangolo cartaceo dal portafogli, l’ingegner Menfi. L’ispettore deglutí.
Con quel prezioso reperto, fu per Valdo un gioco da ragazzi identificare la società; e anche se, come pensava, essa non era piú funzionante, chiedendo a qualche collega della squadra mobile non gli fu difficile venire a conoscenza che quella società era anche sospettata, tra le altre cose, di aver tirato le fila di un fiorente commercio di documenti falsificati. Attraverso l’esame delle uscite del conto corrente bancario di Varna, venne a sapere che un paio d’anni addietro da quel conto erano usciti cinquantamila fiorini – somma tutt’altro che da disprezzarsi – girati alla società dell’espatrio. Ma Varna non era fuggito via, quindi perché pagare? Ormai c’erano due certezze: quella società lo aveva provvisto di chissà quanti documenti falsi, e Varna s’era di fatto reso invisibile. Anzi, ve n’era una terza: egli aveva meditato per anni il suo piano omicida, e da questa ne discese una quarta: l’ingente somma versata doveva essere servita allo scopo o di garantirsi l’anonimato, oppure a riscattare e distruggere la documentazione su di lui immagazzinata negli archivi della società d’espatrio. E per ultima, eccone una quinta: dal registro della camera di commercio, risultò che la sede legale della società per l’espatrio lieto si trovava in qualche sperduta soffitta di Panama City.

giovedì 20 ottobre 2011

Il contesto. Una trascrizione (1)

A quanto ne so, la “trascrizione” di un’opera letteraria è un genere assai poco frequentato. Lo stesso Candido. Un sogno fatto in Sicilia, non può noverarsi in questo sparuto rotary club di meri tentativi: esso appartiene, piuttosto, alla maggiormente folta e variegata schiera dei rifacimenti. L’uso della parola “trascrizione” sta a suggerire un richiamo diretto e fermo alla musica: riportare le note scritte per un ensemble, ad un altro affatto diverso. Le note devono essere quelle, non se ne possono aggiungere altre, a meno di non immaginare qualche “riempitivo” qua e là, ma tale da non alterare l’impalcatura armonica del brano. Questo è il risultato.


Quando a Palazzo di giustizia venne diffusa la notizia che il giudice Tenso, componente della prima sezione del tribunale fallimentare, era stato ucciso, ai membri di quel collegio un brivido corse per la schiena. Era stato freddato nei pressi della sua abitazione, nel quartiere residenziale della elegante periferia ovest della nostra città, ed era il terzo giudice a cadere sotto i colpi di un carnefice che la polizia riteneva essere lo stesso in tutti e tre i casi, considerando la barocca bizzarria del modo col quale le tre vittime erano state regolate: due colpi alle gambe, cosí da impedire rocambolesche sottrazioni all’agguato; infine, un colpo di grazia alla nuca. S’era trattato di tre esecuzioni. Dapprima era stata la volta del giudice Curater, della sezione lavoro, quindi toccò al consigliere Dorico, della stessa sezione di Tenso. Il problema che assillava gl’inquirenti era, in primo luogo, quello di stabilire un collegamento tra gli uccisi; e gli uffici della squadra investigativa della polizia criminale già attendevano al vaglio delle copie d’innumerevoli faldoni rigonfi di documenti – dai quali si intendeva estrarre il sospirato indizio che connettesse quelle tre morti – quando un quarto delitto, compiuto con lo stesso metodo, venne eseguito pochi giorni dopo l’assassinio di Tenso, allungando la mortifera serie già oltre il limite tollerabile da una qualunque macchina istituzionale ancora in grado di decidere lo stato d’eccezione. Una smarrita angoscia andava diffondendosi persino nelle ovattate stanze della corte suprema. Ma, stavolta, la vittima caduta sotto la fatale sequenza dei tre colpi non rivestiva ruolo di giudice, bensí quello di notaio di grido: alludiamo a quel Gast, titolare dello studio piú quotato tra gli istituti di credito cittadini. La questione si trasformò, poi, in un irrisolvibile rompicapo allorché sotto il tiro dello scatenato esecutore cadde anche l’avvocato Diniz, esperto di pratiche di assistenza sindacale nelle controversie riguardanti la disciplina giuridica dei contratti di lavoro. Quest’ultimo delitto suggerí agli investigatori un’altra direzione di ricerca: forse, per qualche calcolo ancora incomprensibile, l’esecutore degli omicidi doveva essere ricercato negli ambienti di estremisti in qualche modo legati al partito progressista internazionale; e se cosí era, la ricostruzione del contesto in cui quel quadro delittuoso andava maturando diventava di colpo problematica.
L’omicidio di Tenso fu ripreso e commentato a fondo dalle gazzette e dalla radio; molti s’iscrissero a parlare dalle tribune della comunicazione satellitare. Sugli schermi televisivi di tutte le case apparvero, solenni e compunte, le figure del primo ministro e del presidente del parlamento nei loro completi di grisaglia, nel mentre che il presidente della repubblica lanciava il suo severo monito a tutti quei complottardi erroneamente convinti di poter intralciare il cammino della giustizia e di compromettere la saldezza delle “istituzioni democratiche”. A questi si aggiunsero il cardinal Rasto, segretario della Congregazione per l’ortodossia conciliare; e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali, dicendosi particolarmente colpiti dall’uccisione di Curater, l’inflessibile “difensore dei diritti dei lavoratori nelle vertenze contro il padronato”, compiansero “l’impoverimento che il movimento operaio avrebbe subíto con siffatta perdita”; e poi il presidente dell’associazione degli industriali, che lamentò con la scomparsa di Tenso, già consulente del governo in ordine alla riforma del diritto fallimentare, la sopravveniente miseria che li avrebbe percossi senza piú disporre di quella indispensabile “guida ideologica” del funzionamento del sistema delle imprese industriali, ovvero quello stesso Tenso che con loro collaborava fornendo consulenze e pareri (consulenze e pareri che potevano essere riassunti cosí: di quando in quando, toccava segare i rami seccati dal batterio della crisi economica, a che i sani non s’impestassero), lautamente rimunerati; e poi gli ordini professionali, quello dei notai e quello degli avvocati, che si dolsero per la scarsa attenzione da sempre rivolta dalle autorità nei confronti dei tutori dell’aspetto formale e giuridico della vita pratica della nazione, e poi e poi…
Toccò allo stesso cardinal Rasto la recita dell’omelia alle esequie di Tenso; Curater fu onorato dal responsabile dell’associazione Chiesa del popolo mondiale, padre Abraham Caviglia, alla presenza del deputato Riccardo Rodan, un influente membro della corrente “modernista” del partito religioso moderato. Curater e Rodan avevano contribuito al finanziamento dell’associazione di padre Caviglia, e in parlamento le richieste della Chiesa del popolo mondiale trovavano sostegno in una disposizione trasversale, da alcuni politologi ribattezzata “alleanza costituzionale”, che andava dalla sinistra filorivoluzionaria sino alla destra cattolica moderata, con l’esclusione del partito del blocco identitario. E proprio al blocco identitario – unica rappresentanza parlamentare ad opporsi all’importazione massiccia di manodopera straniera, di altri paesi, altre razze e altre religioni, in atto ormai da un decennio – si dovevano vituperate iniziative referendarie, in vista della compilazione di una più incisiva strategia di resistenza al tentativo di favorire il progressivo mutamento della composizione etnica della nazione, ma intorno alle quali il quadro politico costituzionale, pur cosí frammentato e avvelenato, recuperava, nell’osteggiarle, la ragione di una posticcia concordia .
Nel discorso d’ufficio commemorativo, Rasto adoperò il consueto armamentario moraleggiante; e tra coloro che ascoltavano nella cattedrale, e che lí presenziavano – nelle ultime file, dietro ai banchi riservati alle autorità – senza impersonare alcun ruolo nella commedia delle istituzioni che celebrano sé stesse, montava la marea della deferenza supina, quel sottaciuto orgoglio da cadetto che condiscende a farsi intorpidire il pensiero dal lessico fasullo ed insincero che autorità civili e religiose, via via, elaborano allo scopo di imporre un sistema di filtraggio di qualunque meditazione critica. Tra costoro, vale la prassi di scambiare la sopportazione del peso dell’onusta simbologia delle istituzioni con l’illusione di esserne parte. Mentre ciò accadeva, di Curater si spergiurava quanto fosse stato, insieme con pochi altri, attento interprete delle aspettative provenienti dal mondo del lavoro; sovente egli aveva esposto questa sua idea nelle assisi che con regolare cadenza, ogni anno, l’associazione sindacale dei magistrati teneva, a che si discutesse la linea politica da adottare nei confronti del governo. Inoltre, adoprandosi fattivamente per la Chiesa del popolo mondiale pel tramite di diverse mediazioni, anche internazionali, era riuscito a guadagnare l’integrazione di questa organizzazione nel novero di quelle finanziate dal fondo privato di Magyar Schildroth, il celebre speculatore di borsa, che devolveva una consistente aliquota percentuale dei proventi del suo fondo d’investimento, il Quanta Fund, alle organizzazioni disposte a propalare il suo messaggio mondialista nei sistemi politici delle nazioni industrializzate.
Dopo il frastuono delle prime settimane, ne seguirono altre due nelle quali nulla accadde; ma quando le polemiche già si andavano sopendo per lasciare il posto al concentrato silenzio delle autorità giudiziarie e di polizia, che nel riserbo e nella discrezione anelavano rinserrarsi onde gettare l’intero corpo della sicurezza nazionale a capofitto nelle indagini, cadde vittima dell’ennesimo agguato il giudice Corda, in carica al tribunale civile. Funzionari del ministero degli affari interni convinsero il ministro, ormai nel panico, ad istituire un secondo canale d’indagine, molto “discreto”, da affidare in custodia ad un investigatore altrettanto discreto e non privo di agudeza. A questo scopo il direttore del SIS (Servizio per le informazioni segrete), cioè il servizio segreto civile, ritenendo che in quella terribile faccenda vi fossero coinvolte fazioni estremistiche, suggerí un nome: quello dell’ispettore Valdo.
Maturata nei lustri delle scottanti indagini assegnate alle varie sezioni dell’ufficio politico della polizia, Valdo disponeva di solida dimestichezza con i proclami delle organizzazioni antagoniste armate e clandestine; e proprio in forza di tale esperienza non riteneva esservi responsabilità dei gruppi da lui sorvegliati e studiati fino ad allora. E ne aveva ben donde: questi solevano lasciare rivendicazioni delle loro imprese violente sempre assai verbose; contrariamente a quest’uso, nella serie mortale in corso l’assassino aveva colpito fulmineo e letale, ma muto. Non questo, però, sembrava l’indizio decisivo: quel che piú lo insospettiva era quell’elemento di solitudine che dall’incedere delle uccisioni si coglieva chiaro e inequivocabile. Quelli del partito progressista internazionale, poi, erano poco più che burocrati parolai, personale di partito ormai oggettivamente integrato nei processi di formazione dello stato borghese, ai quali contribuiva per mezzo di una consolidata retorica circa il “progresso verso la conquista dei diritti”, inteso come massima sintesi teorica della prassi politica di cui era capace: e, questo facendo, controbilanciava l’oratoria del partito religioso moderato sull’unità della patria. No, quella serie funesta era opera di un solitario assassino, probabilmente mosso da motivi di rancore personale, sebbene Valdo nutrisse il sospetto che alcune tra le sue vittime fossero state trascelte in considerazione della carica detenuta in seno alle istituzioni, e che non necessariamente tutte insieme avessero contribuito con il loro ufficio a cagionarne rovina. Se era cosí, se la vendetta del misterioso uccisore dovesse inquadrarsi in un contesto simbolico oltre che causale, poteva darsi che né la polizia, né il dipartimento dell’antiterrorismo del quale teneva responsabilità in seno all’ufficio politico, né il SIS sarebbero riusciti a interromperne il micidiale corso prima di un passo falso del suo artefice.
Ma quale poteva essere la chiave capace di decrittare quella simbologia, invero tra tutte oscurissima? Se l’assassino, secondo la prima formulazione di Valdo, era un solitario la cui azione si spiegava con motivi personali privati, la circostanza di vittime appartenenti in special modo ai tribunali del lavoro e dei fallimenti risultava quantomeno sospetta, comunque meritevole d’un approfondimento, a meno che le organizzazioni terroristiche dell’eversione rivoluzionaria non avessero incominciato una nuova stagione di attentati contro chi, istituzionalmente responsabile del funzionamento della disciplina del lavoro, era in qualche modo divenuto ai loro occhi connivente, se non proprio complice, con l’organizzazione degli industriali. Il rapimento di Andreas Mitos, ex primo ministro e presidente del partito religioso moderato, e la distruzione degli uomini della sua scorta (terribili eventi intervenuti alcuni anni addietro e conchiusi dall’assassinio del presidente dopo una prigionia durata cinquantacinque giorni), erano stati interpretati da Valdo come un cambiamento di linea politica dell’eversione che non recava segni fausti: colpire al cuore il sistema significava non piú proporre azioni di disturbo nelle fabbriche, ma cercare di interrompere e avvelenare i canali di comunicazione tra le diverse istituzioni dello stato. Valdo l’aveva chiamata una svolta “politicista”. In tal modo, l’eversione si trasformava, cercando di penetrare nella struttura stessa del quadro politico. Il tentativo di trascinare dalla propria parte l’ala più estrema del partito progressista internazionale aveva come mèta finale il dissesto ed il tracollo del nuovo equilibrio che si andava profilando. Ma quei fatti così lontani nel tempo avevano generato effetti durevoli, tra i quali la trasformazione storica del partito progressista internazionale: non muovendosi piú sul punto d’appoggio del lavoro, sarebbe diventato poco più di una parte di quella guerra per bande che segna la vita degli stati. E forse, almeno nell’interpretazione del SIS, la catena delittuosa di oggi trovava inconfessata ragione in quell’antico prologo.


Mentre cenava, da solo, in una chiara sera di giugno, in un cantone appartato del lindo dopolavoro ferroviario adiacente alla stazione centrale, Valdo era immerso in queste riflessioni. Informazioni riservate, comunicategli dal SIS direttamente, scavalcando la direzione centrale dell’ufficio politico, tracciavano un quadro in movimento dell’eversione, protesa ormai verso risoluzioni tragiche; e sebbene al momento non le si potessero addossare responsabilità nella serie omicida di procuratori e giudici, non era da escludere che quanto prima avrebbe potuto cominciare a tessere, a sua volta, analoga strategia. Il ministro della Sicurezza nazionale aveva investito Valdo di poteri estesissimi, imponendogli il solo obbligo di conferire col suo gabinetto non ufficiale, cioè la direzione del SIS, avanti di profittarne oltre la misura ordinariamente consentita. E si poteva star certi che Valdo in conformità a quell’intendimento si sarebbe comportato, non avendo mai tenuto in soverchia stima una condotta scapigliata di quel mestiere, com’erano adusi a fare taluni investigatori di frangia. Ma un solitario, questo sí, Valdo lo era sempre stato, né il ministro poteva dirsene a sconoscenza; però era questo un particolare che si poteva volentieri tralasciare, specialmente ora che, anch’esso col consueto rituale, il dottor Echel, direttore finanziario della Banca di credito commerciale, era stato ritrovato cadavere in una stradina di campagna in prossimità della città di Chiro, campagna dov’era una casa, di sua proprietà, nella quale il funzionario amava soggiornare all’approssimarsi dell’estate. Che non potesse trattarsi di un piano di guerra dell’eversione terroristica era scritto nei fatti: nessuna organizzazione di questo tipo si permette una sequenza di operazioni tanto serrata, ma anche e necessariamente poco meditata, se si doveva attribuirla ad un piano sovversivo piú che al cieco colpire d’un folle. E il disegno già si andava componendo nella mente di Valdo, quando l’indomani, a trenta chilometri da dove era stato ucciso il banchiere Echel, nella città di Leuda, con due colpi alle gambe e uno mortale in testa si rinvení il corpo esanime di Ugo Voss, il segretario generale della confederazione dei sindacati collettivi: ritrovamento che tosto confermò a Valdo la bontà del suo ragionare.
Il giorno successivo si recò all’archivio del tribunale civile con un foglietto su cui erano segnati alcuni nomi: Tenso, Curater, Dinz, Echel. Fortunatamente, conferendo con l’archivista – e riuscendo a forza di reiterate richieste, se non di vaghe ed imprecisate, quanto efficaci minacce, a superare le iniziali sue resistenze e lutulenze – poté mettere le mani su dieci cartelle riguardanti altrettanti casi di fallimento in cui Tenso s’era pronunziato in quel senso, dietro richiesta dell’avvocato Dinz, che assisteva i “lavoratori” e che aveva già ottenuto soddisfazione dal giudice Curater, e su richiesta anche di Echel, per nome e per conto della Banca di credito commerciale, creditrice di coloro di cui Tenso aveva dichiarato fallimento. Di quelle dieci ne scartò d’un subito la metà, dove il soggetto fallito erano società a responsabilità limitata; delle cinque rimanenti ne tralasciò due, intestate ad una ragazza poco piú che ventenne, la prima, e a un ottuagenario, l’altra, ché quella sarabanda d’omicidi non si poteva credibilmente attribuire a delle “teste di legno”.
Tra le mani di Valdo n’erano avanzate tre assai sospette, che intendeva approfondire in quel fine settimana. Il primo di questi sospettabili cui egli rese visita stava tentando di ricostruire una perduta situazione di floridezza economica, lavorando senza soluzione di continuità lungo tutta la settimana, per tutte le settimane della sua vita. Rimandava l’immagine di un ragno infaticabile, la cui esistenza non può che essere segnata dalla reiterata, costante, inesauribile tessitura di una tela ai margini della quale l’infuriare degli elementi, di tanto in tanto apporta crinature e spezzamenti.
– Riuscirete a risollevarvi? – domandò Valdo.
– Non lo so – replicò l’altro dopo un’esitazione e con un filo di voce, evitando di incrociare lo sguardo dell’interlocutore. – Sto ancora lavorando come un matto, dalle cinque di mattina fino alle otto di sera, e questo solo per pagare i debiti, o quasi, e scongiurare che i miei creditori promuovano l’azione legale per pignorare la mia casetta sul lago…
Aveva rilevato una rivendita di giornali, situata per sua buona sorte in un punto centrale della città: gli affari non dovevano andare malaccio, ma tutto il denaro che guadagnava di fatto non gli apparteneva, e chissà per quanti anni sarebbe ancora andata cosí. Valdo non poté trattenere un moto di curiosità, sicché commise l’errore di domandargli cosa ancora pensasse dello stato, della pubblica amministrazione.
– Lo stato non esiste – rispose di getto. L’istantaneità della replica avvertí Valdo che aveva toccato una corda sensibile, e l’edicolante, obbedendo apparentemente ad una sorta d’impulso radiocomandato, irresistibile, improvvisamente s’era fatto loquace, e rovesciò sul poliziotto, come una cateratta la cui altezza non può piú trattenere il livello delle acque, una ciclopica quantità d’improperi mischiati ad amareggiate considerazioni sulla rovina economica di un intero ceto, favorita se non procurata dai viziosi comportamenti della burocrazia statale. – Lo stato non esiste – ribadí; – esistono i politici, quelli sí, ma avrei dovuto immaginare che non me li sarei trovati dalla mia parte. O meglio: non quelli dell’alleanza costituzionale… forse il blocco identitario potrebbe assistermi…
Nonostante tutto, in qualcosa ancora credeva. Faceva un certo effetto constatare che un piccolo commerciante, pur dopo anni di turlupinature fiscali e legali, e amarezze continue che si ripetevano con l’alternarsi dei decreti ingiuntivi e degli atti notori, e vita agra, riponesse ancora fiducia in un rinnovato ceto politico da qualche anno venuto alla ribalta.
– Il blocco identitario? – disse Valdo. – Non dispiace neanche a me, sapete?
– Sono lieto che la pensiate cosí anche voi. Non sono un visionario, allora. Ancora non riesco a credere che lo stato ipotechi il mio appartamento per debiti, e che ai forestieri clandestini consenta l’accesso agli alloggi popolari, o chiuda un occhio quando sfondano le cancellate degli stabili abbandonati e li occupano!
Come avrebbe potuto, Valdo, dargli torto? Non è stato lui, si disse mentre veniva via. Ed era chiaro che non poteva essere stato lui: aveva ancora controllo integrale sulla sua capacità di giudizio. Inoltre, voleva uscirne fuori con costrutto, senza intoppi o grane, ricostruendo una possibile tranquilla esistenza.
Il secondo non lo trovò nella sua abitazione; s’imbatté, in suo luogo, nella vecchia madre, che viveva da sola, facendosi assistere da una specie di dama di compagnia, una donna un po’ meno avanti d'età di lei, inglese, che attraverso certe sue conoscenze era riuscita a trovare un lavoro al figlio della sua anziana assistita, ora riparato con mansione di cameriere in un bar interno ai grandi magazzini Harrod’s, dove si servivano il breakfast ed il lunch. Abitava in Londra ormai già da un anno, e nelle lettere che scriveva, invariabilmente si poteva leggere, in chiusa, che contava di non rientrare mai piú nella sua patria, addirittura rinnegata con parole di fiele in uno degli ultimi suoi scritti dall’esilio. Dalle piú recenti notizie che aveva dato di sé si poteva ricavare che aveva intenzione di sposarsi presto con una ragazza irlandese, ché insieme avevano messo su casa. Questo particolare aveva rasserenato la madre, che benediceva il provvidenziale intervento della sua assistente britannica.
Ora rimaneva l’ultimo indiziato, era venuta l'ora di mettersi in macchina alla volta della città di Svaro, dove Varna (cosí si chiamava, il presunto colpevole) risiedeva: Valdo si fermò ad una locanda della città vecchia, seminascosta in un viottolo secondario e trovata per caso. Dopo l’ottimo pranzo, alla maniera di casa, si mise in viaggio. Coprí in un’oretta scarsa la distanza che lo separava da Svaro, ma prima di intraprendere qualunque iniziativa, anche di pura osservazione, si recò là, dove sapeva che avrebbe trovato il funzionario locale della polizia giudiziaria, col quale era quasi d’obbligo conferire; lo aveva inoltre contattato per telefono il giorno avanti, preannunziando la sua venuta e rivolgendogli al contempo alcune richieste. Si recò in una zona isolata, dove stava l’ultima abitazione conosciuta di Varna; accompagnato dal funzionario e da altri due agenti, durante il tragitto aveva rapidamente consultato l’incartamento in cui si illustrava senza troppo soffermarsi sui dettagli, ma pur sempre col gergo mortifero della burocrazia giudiziaria, la disavventura che aveva colpito l’azienda di Varna, descritta come se non fosse stata anche la disavventura dell’uomo.
Giunti che furono al cospetto del cancello, invero minuscolo, ne riebbero quasi un senso di desertico abbandono. Il giardino che correva intorno al perimetro della villetta ad un solo piano era ormai ridotto ad un mareggiare di erbacce, sulla via di ricoprire finanche le larghe pietre quadrate che lastricavano il camminamento dal cancelletto fino alla scalinata dell’uscio. Tutte le imposte erano sbarrate; dovunque posasse, allo sguardo si palesavano i segni dell’incuria. Valdo, il funzionario e i due agenti compirono a guisa di ronda il periplo del muro di cinta: basso com’era, consentiva la veduta un po’ dappertutto, senza che l’esito della corriva, improvvisata perlustrazione mai si mutasse. Varna non c’era piú: semplicemente, s’era reso “indisponibile”. La serratura del cancelletto non oppose resistenza alla chiave universale del funzionario; quella dell’uscio d’ingresso alla casa, diede un po’ di noia, ma infine n’ebbero ragione. Dentro la casa regnava un silenzio a suo modo impressionante, che s’era mischiato al tanfo di chiuso.
L’arredo degli interni, quando fu fatta luce, colpí l’occhio di Valdo per due caratteri specifici: la spoglia essenzialità dell’ammobiliamento, ristretto all’indispensabile, e talora anche meno, e poi la predilezione per le tonalità scure, cupe. Una stanza – forse quella degli ospiti, o magari uno studio – era priva di tavolo; di sedie ve n’era una, presa dalla cucina. L’unico mobile era una libreria svettante fino a sfiorare il soffitto, ben fornita di volumi, e di fronte alla quale Valdo s’indugiò, scoprendo a sorpresa un lettore d’inequivocabile gusto bizzarro, che alternava La sfera dell’indovina al Principe e Sulle scogliere di marmo alle Elegie duinesi. Nella stanza da notte, invece, un tavolo ed una sedia, disposti ad un lato e antistanti a un divano-letto, figuravano anch’essi carichi di libri, insieme con un paio di cartelline di cartoncino leggero, tipo ufficio.
Mai come in quello scenario cosí spoglio d’oggetti, ma ancora denso dei solitari pensieri di Varna, Valdo si sentí oppresso da una tale forma di melanconia. Sul piano del tavolino che faceva da scrittoio, impilato sopra la Scienza della logica, v’era un manuale di diritto fallimentare, di quelli ad uso dei corsi universitari; e, nelle cartelline, debitamente numerate, stavano appunti ed estratti da quel testo, che ancora presentava i segni materiali di notturne, febbrili consultazioni, indicanti nel loro insieme il tentativo affannato di suggerire al proprio avvocato una difesa piú arguta, promuovere una condotta meno pigra.
Valdo prese con sé le cartelline, quindi abbandonò la villetta insieme col funzionario, lasciandola alla cura degli altri poliziotti col compito di sigillarla. Dalla perquisizione (veloce senza essere corriva, né superficiale, ché ormai gli agenti erano versati in quel genere di faccende) avevano capito che nessun altro indizio, o una traccia, o magari un richiamo ad uno spostamento recente di Varna sarebbero saltati fuori a facilitarne la ricerca, l’individuazione. Solo le cartelline portò via con sé; e in quelle, nei giorni successivi, rientrato nella capitale, egli si sarebbe immerso, prendendo a studiarle a fondo, intrattenendosi su quei testi fino a notte alta, quando già da un pezzo la rossa luce del tramonto aveva lasciato il campo al lucore intermittente del cielo stellato, cosí caratteristico a quelle latitudini. Cercava, a guisa dell’archeologo sui suoi frammentari reperti, un senso sfuggente in quelle righe vergate in preda all’ansia (la cui traccia si serbava nei discontinui contorcimenti della scrittura – altrimenti minuta e regolare, da miope –, contrassegno di chi, sopraffatto da flussi di ritornante angoscia, non poteva evitare che la sua grafia, a cadenze grosso modo regolari, ne venisse perturbata); cercava pure il ristabilimento di un contorno logico nel turbine della nevrosi definitivamente padrona di quel pensiero in rovina. E, ad un certo punto, dopo l’integrale immersione nel dolore mentale di Varna, il disegno prese forma: dagli appunti letti e riletti, una fissazione, se non una vera e propria mania, era emersa dal resto della schiuma che l’avvolgeva: il terrore del pignoramento immobiliare. E allora Valdo s’avventò, come un cane alla ricerca della folaga abbattuta dal cacciatore, sul faldone in cui era contenuta la sentenza di fallimento di Varna, emessa dal giudice Tenso, e la lesse: vi si diceva dell’accoglimento delle istanze di fallimento presentate dalle controparti di Varna (l’avvocato Diniz per conto di un certo Futro, ex operaio della ditta di Varna, che fu ammesso a partecipare alla divisione fallimentare vantando un credito da lavoro riconosciuto in prima udienza dal giudice Curater; quindi il dottor Echel, in nome e per conto della Banca di credito commerciale, alla quale Varna doveva una certa somma, che faticava a restituire, per un finanziamento accordato quattro anni prima) e del susseguente pignoramento di due immobili di sua proprietà, che costituivano tutto il suo patrimonio, ciò ch’era rimasto da quando era cominciata la Grande Tribolazione. Eccolo, si disse, l’anello mancante, il profilo del disegno che spiegava gli eventi: la firma dell’assassino.