sabato 29 ottobre 2011

Il contesto. Una trascrizione (2)

Un altro incarico, senza che lo volesse, gli era però piombato addosso: mettersi al piú presto in contatto con quel Futro, l’operaio che aveva trascinato Varna in tribunale, perché stava per scattare l’ora del suo appuntamento con la morte. Ma quando Valdo era appena giunto, trafelato, nel palazzo dove dimorava il SIS, e chiese di poter conferire immediatamente con il suo diretto superiore – ch’era anche il capo della suddetta struttura informativa – il commentatore del radiogiornale stava annunciando, dall’apparecchio acceso sul tavolo di un agente di fronte all’ufficio del funzionario, che proprio a Svaro era stato rinvenuto, in un fosso della periferia settentrionale, il corpo senza vita di un certo Futro, crivellato da colpi esplosi da un'arma da fuoco a ripetizione (quindi non con la Beretta sette e sessantacinque utilizzata per gli altri delitti).
E dunque, pensò Valdo, quel furbacchione di Varna aveva proprio al momento giusto cambiato modo di uccidere: se avesse liquidato Futro con la stessa tecnica degli altri, la polizia sarebbe stata messa nelle condizioni di risalire facilmente fino a lui; quel diversivo, invece, gettava un’opportuna cortina di fumo sul suo piano criminoso, che forse era giunto, con l’assassinio di colui che l’aveva trascinato al cospetto dei suoi carnefici in toga, al punto finale dell’esecuzione, e quel cambiamento serviva a guadagnare un po’ di tempo. Ma Varna risultava ancora invisibile, uno spettro: come poteva, egli, muoversi tra le maggiori città della nazione, soggiornare negli alberghi e registrarsi, rimanendo di fatto invisibile? Fino a che Valdo non avesse risolto questo enigma, il ministro della Sicurezza nazionale, e di rimando il direttore del SIS, non lo avrebbero preso in considerazione, ritenendo piú promettente trovare rifugio sotto il confortevole ombrello delle fazioni terroristiche in lotta contro lo stato, a giustificare la mattanza di giudici e professionisti. (Il ministro della Sicurezza nazionale apparteneva alla corrente liberale del partito religioso moderato, e aveva avuto in passato rapporti burrascosi col partito progressista internazionale, rapporti che, negli ultimi tempi, erano però nettamente migliorati, da quando aveva fatto la sua comparsa sulla scena politica e parlamentare il blocco identitario.)
La risposta non tardò ad illuminare il faticoso arrovellarsi di Valdo. Era andato a trovare l’unico amico, o conoscente, col quale negli ultimi tempi Varna aveva avuto quello che poteva dirsi (forse) uno scambio di confidenze. Questo conoscente, suo vicino di casa, si chiamava Menfi, ingegner Menfi, e possedeva la villetta piú vicina a quella di Varna. L’ingegnere parve a Valdo stranamente loquace, quantunque le informazioni realmente interessanti che ne poté cavare furono davvero poche, eccettuata una. Era palese che reagiva a quel modo per atavico timore dell’autorità.
– È che Varna non si sbottonava poi cosí tanto – si giustificò l’ingegner Menfi. – Sembrava che volesse ricoprire la sua esistenza personale al di sotto d’una coltre capace di renderla invisibile. Ho sempre sospettato che la sua vita fosse piuttosto arida: mai una visita, niente amici, donne neanche a parlarne, figurarsi: quando il discorso cadeva lí, abilmente manovrava per distogliernelo. Inoltre, anche se non ne dava le mostre, era un uomo molto diffidente.
– Come faceste ad accorgervene?
– Ero curioso di sapere cosa gli passasse per la mente; pareva sempre cosí malinconico. La vedete quella staccionata? Ebbene, c’erano occasioni che vi si appoggiava, o vi si sedeva a cavalcioni, e stava per intere mezzore a fissare il tramonto. Quando, incuriosito, gli chiesi motivo di quello strano comportamento, mi rispose con parole incomprensibili: “È una metafora. Bisogna che qualcosa declini affinché un’altra possa nascere”. Poi, qualche giorno dopo, discorrendo si finí ad una specie di gioco: immaginare, cioè, vite alternative in altri paesi, dove nessuno ti conosce… Fu a quel punto che gli sfuggí di quella società che organizzava espatrî “lieti” (usò proprio questo aggettivo), in qualche paese esotico, ma sembra che la società in questione chiedesse rette d’iscrizione alquanto salate.
Da questo colloquio era emerso che Varna aveva contattato – o aveva pensato di contattare – una società specializzata nel rinvenimento di una sistemazione in qualche luogo straniero. Se cosí stavano le cose, la pressione emotiva che ogni giorno egli era costretto a sostenere andava facendosi sempre piú insopportabile: Varna era sull’orlo del cedimento psichico. Tra le altre cose piú o meno di contorno, l’ingegner Menfi rivelò all’ultimo l’unica informazione che contenesse un qualche elemento probatorio: quando stava per congedarsi da Varna, una sera ch’era stato a trovarlo a casa sua, dopo un paio d’ore di conversazione, l’occhio gli era caduto su di un rettangolino di carta giallastra che fuoriusciva di poco dai fogli di un’agenda, sulla scrivania. Varna era andato a cercare un libro di là, in camera sua. – Liberai il frammento di carta dalla presa dei fogli dell’agenda, e mi accorsi che si trattava proprio della reclame pubblicitaria di quella associazione del lieto espatrio; inoltre mi accorsi che era stato ritagliato dalla guida telefonica delle società commerciali. Rimisi tutto a posto. Poi, quando fui di nuovo a casa, per prima cosa presi la mia copia della guida, e non impiegai molto a trovarlo. Eccolo qui – disse poi, estraendo il rettangolo cartaceo dal portafogli, l’ingegner Menfi. L’ispettore deglutí.
Con quel prezioso reperto, fu per Valdo un gioco da ragazzi identificare la società; e anche se, come pensava, essa non era piú funzionante, chiedendo a qualche collega della squadra mobile non gli fu difficile venire a conoscenza che quella società era anche sospettata, tra le altre cose, di aver tirato le fila di un fiorente commercio di documenti falsificati. Attraverso l’esame delle uscite del conto corrente bancario di Varna, venne a sapere che un paio d’anni addietro da quel conto erano usciti cinquantamila fiorini – somma tutt’altro che da disprezzarsi – girati alla società dell’espatrio. Ma Varna non era fuggito via, quindi perché pagare? Ormai c’erano due certezze: quella società lo aveva provvisto di chissà quanti documenti falsi, e Varna s’era di fatto reso invisibile. Anzi, ve n’era una terza: egli aveva meditato per anni il suo piano omicida, e da questa ne discese una quarta: l’ingente somma versata doveva essere servita allo scopo o di garantirsi l’anonimato, oppure a riscattare e distruggere la documentazione su di lui immagazzinata negli archivi della società d’espatrio. E per ultima, eccone una quinta: dal registro della camera di commercio, risultò che la sede legale della società per l’espatrio lieto si trovava in qualche sperduta soffitta di Panama City.

giovedì 20 ottobre 2011

Il contesto. Una trascrizione (1)

A quanto ne so, la “trascrizione” di un’opera letteraria è un genere assai poco frequentato. Lo stesso Candido. Un sogno fatto in Sicilia, non può noverarsi in questo sparuto rotary club di meri tentativi: esso appartiene, piuttosto, alla maggiormente folta e variegata schiera dei rifacimenti. L’uso della parola “trascrizione” sta a suggerire un richiamo diretto e fermo alla musica: riportare le note scritte per un ensemble, ad un altro affatto diverso. Le note devono essere quelle, non se ne possono aggiungere altre, a meno di non immaginare qualche “riempitivo” qua e là, ma tale da non alterare l’impalcatura armonica del brano. Questo è il risultato.


Quando a Palazzo di giustizia venne diffusa la notizia che il giudice Tenso, componente della prima sezione del tribunale fallimentare, era stato ucciso, ai membri di quel collegio un brivido corse per la schiena. Era stato freddato nei pressi della sua abitazione, nel quartiere residenziale della elegante periferia ovest della nostra città, ed era il terzo giudice a cadere sotto i colpi di un carnefice che la polizia riteneva essere lo stesso in tutti e tre i casi, considerando la barocca bizzarria del modo col quale le tre vittime erano state regolate: due colpi alle gambe, cosí da impedire rocambolesche sottrazioni all’agguato; infine, un colpo di grazia alla nuca. S’era trattato di tre esecuzioni. Dapprima era stata la volta del giudice Curater, della sezione lavoro, quindi toccò al consigliere Dorico, della stessa sezione di Tenso. Il problema che assillava gl’inquirenti era, in primo luogo, quello di stabilire un collegamento tra gli uccisi; e gli uffici della squadra investigativa della polizia criminale già attendevano al vaglio delle copie d’innumerevoli faldoni rigonfi di documenti – dai quali si intendeva estrarre il sospirato indizio che connettesse quelle tre morti – quando un quarto delitto, compiuto con lo stesso metodo, venne eseguito pochi giorni dopo l’assassinio di Tenso, allungando la mortifera serie già oltre il limite tollerabile da una qualunque macchina istituzionale ancora in grado di decidere lo stato d’eccezione. Una smarrita angoscia andava diffondendosi persino nelle ovattate stanze della corte suprema. Ma, stavolta, la vittima caduta sotto la fatale sequenza dei tre colpi non rivestiva ruolo di giudice, bensí quello di notaio di grido: alludiamo a quel Gast, titolare dello studio piú quotato tra gli istituti di credito cittadini. La questione si trasformò, poi, in un irrisolvibile rompicapo allorché sotto il tiro dello scatenato esecutore cadde anche l’avvocato Diniz, esperto di pratiche di assistenza sindacale nelle controversie riguardanti la disciplina giuridica dei contratti di lavoro. Quest’ultimo delitto suggerí agli investigatori un’altra direzione di ricerca: forse, per qualche calcolo ancora incomprensibile, l’esecutore degli omicidi doveva essere ricercato negli ambienti di estremisti in qualche modo legati al partito progressista internazionale; e se cosí era, la ricostruzione del contesto in cui quel quadro delittuoso andava maturando diventava di colpo problematica.
L’omicidio di Tenso fu ripreso e commentato a fondo dalle gazzette e dalla radio; molti s’iscrissero a parlare dalle tribune della comunicazione satellitare. Sugli schermi televisivi di tutte le case apparvero, solenni e compunte, le figure del primo ministro e del presidente del parlamento nei loro completi di grisaglia, nel mentre che il presidente della repubblica lanciava il suo severo monito a tutti quei complottardi erroneamente convinti di poter intralciare il cammino della giustizia e di compromettere la saldezza delle “istituzioni democratiche”. A questi si aggiunsero il cardinal Rasto, segretario della Congregazione per l’ortodossia conciliare; e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali, dicendosi particolarmente colpiti dall’uccisione di Curater, l’inflessibile “difensore dei diritti dei lavoratori nelle vertenze contro il padronato”, compiansero “l’impoverimento che il movimento operaio avrebbe subíto con siffatta perdita”; e poi il presidente dell’associazione degli industriali, che lamentò con la scomparsa di Tenso, già consulente del governo in ordine alla riforma del diritto fallimentare, la sopravveniente miseria che li avrebbe percossi senza piú disporre di quella indispensabile “guida ideologica” del funzionamento del sistema delle imprese industriali, ovvero quello stesso Tenso che con loro collaborava fornendo consulenze e pareri (consulenze e pareri che potevano essere riassunti cosí: di quando in quando, toccava segare i rami seccati dal batterio della crisi economica, a che i sani non s’impestassero), lautamente rimunerati; e poi gli ordini professionali, quello dei notai e quello degli avvocati, che si dolsero per la scarsa attenzione da sempre rivolta dalle autorità nei confronti dei tutori dell’aspetto formale e giuridico della vita pratica della nazione, e poi e poi…
Toccò allo stesso cardinal Rasto la recita dell’omelia alle esequie di Tenso; Curater fu onorato dal responsabile dell’associazione Chiesa del popolo mondiale, padre Abraham Caviglia, alla presenza del deputato Riccardo Rodan, un influente membro della corrente “modernista” del partito religioso moderato. Curater e Rodan avevano contribuito al finanziamento dell’associazione di padre Caviglia, e in parlamento le richieste della Chiesa del popolo mondiale trovavano sostegno in una disposizione trasversale, da alcuni politologi ribattezzata “alleanza costituzionale”, che andava dalla sinistra filorivoluzionaria sino alla destra cattolica moderata, con l’esclusione del partito del blocco identitario. E proprio al blocco identitario – unica rappresentanza parlamentare ad opporsi all’importazione massiccia di manodopera straniera, di altri paesi, altre razze e altre religioni, in atto ormai da un decennio – si dovevano vituperate iniziative referendarie, in vista della compilazione di una più incisiva strategia di resistenza al tentativo di favorire il progressivo mutamento della composizione etnica della nazione, ma intorno alle quali il quadro politico costituzionale, pur cosí frammentato e avvelenato, recuperava, nell’osteggiarle, la ragione di una posticcia concordia .
Nel discorso d’ufficio commemorativo, Rasto adoperò il consueto armamentario moraleggiante; e tra coloro che ascoltavano nella cattedrale, e che lí presenziavano – nelle ultime file, dietro ai banchi riservati alle autorità – senza impersonare alcun ruolo nella commedia delle istituzioni che celebrano sé stesse, montava la marea della deferenza supina, quel sottaciuto orgoglio da cadetto che condiscende a farsi intorpidire il pensiero dal lessico fasullo ed insincero che autorità civili e religiose, via via, elaborano allo scopo di imporre un sistema di filtraggio di qualunque meditazione critica. Tra costoro, vale la prassi di scambiare la sopportazione del peso dell’onusta simbologia delle istituzioni con l’illusione di esserne parte. Mentre ciò accadeva, di Curater si spergiurava quanto fosse stato, insieme con pochi altri, attento interprete delle aspettative provenienti dal mondo del lavoro; sovente egli aveva esposto questa sua idea nelle assisi che con regolare cadenza, ogni anno, l’associazione sindacale dei magistrati teneva, a che si discutesse la linea politica da adottare nei confronti del governo. Inoltre, adoprandosi fattivamente per la Chiesa del popolo mondiale pel tramite di diverse mediazioni, anche internazionali, era riuscito a guadagnare l’integrazione di questa organizzazione nel novero di quelle finanziate dal fondo privato di Magyar Schildroth, il celebre speculatore di borsa, che devolveva una consistente aliquota percentuale dei proventi del suo fondo d’investimento, il Quanta Fund, alle organizzazioni disposte a propalare il suo messaggio mondialista nei sistemi politici delle nazioni industrializzate.
Dopo il frastuono delle prime settimane, ne seguirono altre due nelle quali nulla accadde; ma quando le polemiche già si andavano sopendo per lasciare il posto al concentrato silenzio delle autorità giudiziarie e di polizia, che nel riserbo e nella discrezione anelavano rinserrarsi onde gettare l’intero corpo della sicurezza nazionale a capofitto nelle indagini, cadde vittima dell’ennesimo agguato il giudice Corda, in carica al tribunale civile. Funzionari del ministero degli affari interni convinsero il ministro, ormai nel panico, ad istituire un secondo canale d’indagine, molto “discreto”, da affidare in custodia ad un investigatore altrettanto discreto e non privo di agudeza. A questo scopo il direttore del SIS (Servizio per le informazioni segrete), cioè il servizio segreto civile, ritenendo che in quella terribile faccenda vi fossero coinvolte fazioni estremistiche, suggerí un nome: quello dell’ispettore Valdo.
Maturata nei lustri delle scottanti indagini assegnate alle varie sezioni dell’ufficio politico della polizia, Valdo disponeva di solida dimestichezza con i proclami delle organizzazioni antagoniste armate e clandestine; e proprio in forza di tale esperienza non riteneva esservi responsabilità dei gruppi da lui sorvegliati e studiati fino ad allora. E ne aveva ben donde: questi solevano lasciare rivendicazioni delle loro imprese violente sempre assai verbose; contrariamente a quest’uso, nella serie mortale in corso l’assassino aveva colpito fulmineo e letale, ma muto. Non questo, però, sembrava l’indizio decisivo: quel che piú lo insospettiva era quell’elemento di solitudine che dall’incedere delle uccisioni si coglieva chiaro e inequivocabile. Quelli del partito progressista internazionale, poi, erano poco più che burocrati parolai, personale di partito ormai oggettivamente integrato nei processi di formazione dello stato borghese, ai quali contribuiva per mezzo di una consolidata retorica circa il “progresso verso la conquista dei diritti”, inteso come massima sintesi teorica della prassi politica di cui era capace: e, questo facendo, controbilanciava l’oratoria del partito religioso moderato sull’unità della patria. No, quella serie funesta era opera di un solitario assassino, probabilmente mosso da motivi di rancore personale, sebbene Valdo nutrisse il sospetto che alcune tra le sue vittime fossero state trascelte in considerazione della carica detenuta in seno alle istituzioni, e che non necessariamente tutte insieme avessero contribuito con il loro ufficio a cagionarne rovina. Se era cosí, se la vendetta del misterioso uccisore dovesse inquadrarsi in un contesto simbolico oltre che causale, poteva darsi che né la polizia, né il dipartimento dell’antiterrorismo del quale teneva responsabilità in seno all’ufficio politico, né il SIS sarebbero riusciti a interromperne il micidiale corso prima di un passo falso del suo artefice.
Ma quale poteva essere la chiave capace di decrittare quella simbologia, invero tra tutte oscurissima? Se l’assassino, secondo la prima formulazione di Valdo, era un solitario la cui azione si spiegava con motivi personali privati, la circostanza di vittime appartenenti in special modo ai tribunali del lavoro e dei fallimenti risultava quantomeno sospetta, comunque meritevole d’un approfondimento, a meno che le organizzazioni terroristiche dell’eversione rivoluzionaria non avessero incominciato una nuova stagione di attentati contro chi, istituzionalmente responsabile del funzionamento della disciplina del lavoro, era in qualche modo divenuto ai loro occhi connivente, se non proprio complice, con l’organizzazione degli industriali. Il rapimento di Andreas Mitos, ex primo ministro e presidente del partito religioso moderato, e la distruzione degli uomini della sua scorta (terribili eventi intervenuti alcuni anni addietro e conchiusi dall’assassinio del presidente dopo una prigionia durata cinquantacinque giorni), erano stati interpretati da Valdo come un cambiamento di linea politica dell’eversione che non recava segni fausti: colpire al cuore il sistema significava non piú proporre azioni di disturbo nelle fabbriche, ma cercare di interrompere e avvelenare i canali di comunicazione tra le diverse istituzioni dello stato. Valdo l’aveva chiamata una svolta “politicista”. In tal modo, l’eversione si trasformava, cercando di penetrare nella struttura stessa del quadro politico. Il tentativo di trascinare dalla propria parte l’ala più estrema del partito progressista internazionale aveva come mèta finale il dissesto ed il tracollo del nuovo equilibrio che si andava profilando. Ma quei fatti così lontani nel tempo avevano generato effetti durevoli, tra i quali la trasformazione storica del partito progressista internazionale: non muovendosi piú sul punto d’appoggio del lavoro, sarebbe diventato poco più di una parte di quella guerra per bande che segna la vita degli stati. E forse, almeno nell’interpretazione del SIS, la catena delittuosa di oggi trovava inconfessata ragione in quell’antico prologo.


Mentre cenava, da solo, in una chiara sera di giugno, in un cantone appartato del lindo dopolavoro ferroviario adiacente alla stazione centrale, Valdo era immerso in queste riflessioni. Informazioni riservate, comunicategli dal SIS direttamente, scavalcando la direzione centrale dell’ufficio politico, tracciavano un quadro in movimento dell’eversione, protesa ormai verso risoluzioni tragiche; e sebbene al momento non le si potessero addossare responsabilità nella serie omicida di procuratori e giudici, non era da escludere che quanto prima avrebbe potuto cominciare a tessere, a sua volta, analoga strategia. Il ministro della Sicurezza nazionale aveva investito Valdo di poteri estesissimi, imponendogli il solo obbligo di conferire col suo gabinetto non ufficiale, cioè la direzione del SIS, avanti di profittarne oltre la misura ordinariamente consentita. E si poteva star certi che Valdo in conformità a quell’intendimento si sarebbe comportato, non avendo mai tenuto in soverchia stima una condotta scapigliata di quel mestiere, com’erano adusi a fare taluni investigatori di frangia. Ma un solitario, questo sí, Valdo lo era sempre stato, né il ministro poteva dirsene a sconoscenza; però era questo un particolare che si poteva volentieri tralasciare, specialmente ora che, anch’esso col consueto rituale, il dottor Echel, direttore finanziario della Banca di credito commerciale, era stato ritrovato cadavere in una stradina di campagna in prossimità della città di Chiro, campagna dov’era una casa, di sua proprietà, nella quale il funzionario amava soggiornare all’approssimarsi dell’estate. Che non potesse trattarsi di un piano di guerra dell’eversione terroristica era scritto nei fatti: nessuna organizzazione di questo tipo si permette una sequenza di operazioni tanto serrata, ma anche e necessariamente poco meditata, se si doveva attribuirla ad un piano sovversivo piú che al cieco colpire d’un folle. E il disegno già si andava componendo nella mente di Valdo, quando l’indomani, a trenta chilometri da dove era stato ucciso il banchiere Echel, nella città di Leuda, con due colpi alle gambe e uno mortale in testa si rinvení il corpo esanime di Ugo Voss, il segretario generale della confederazione dei sindacati collettivi: ritrovamento che tosto confermò a Valdo la bontà del suo ragionare.
Il giorno successivo si recò all’archivio del tribunale civile con un foglietto su cui erano segnati alcuni nomi: Tenso, Curater, Dinz, Echel. Fortunatamente, conferendo con l’archivista – e riuscendo a forza di reiterate richieste, se non di vaghe ed imprecisate, quanto efficaci minacce, a superare le iniziali sue resistenze e lutulenze – poté mettere le mani su dieci cartelle riguardanti altrettanti casi di fallimento in cui Tenso s’era pronunziato in quel senso, dietro richiesta dell’avvocato Dinz, che assisteva i “lavoratori” e che aveva già ottenuto soddisfazione dal giudice Curater, e su richiesta anche di Echel, per nome e per conto della Banca di credito commerciale, creditrice di coloro di cui Tenso aveva dichiarato fallimento. Di quelle dieci ne scartò d’un subito la metà, dove il soggetto fallito erano società a responsabilità limitata; delle cinque rimanenti ne tralasciò due, intestate ad una ragazza poco piú che ventenne, la prima, e a un ottuagenario, l’altra, ché quella sarabanda d’omicidi non si poteva credibilmente attribuire a delle “teste di legno”.
Tra le mani di Valdo n’erano avanzate tre assai sospette, che intendeva approfondire in quel fine settimana. Il primo di questi sospettabili cui egli rese visita stava tentando di ricostruire una perduta situazione di floridezza economica, lavorando senza soluzione di continuità lungo tutta la settimana, per tutte le settimane della sua vita. Rimandava l’immagine di un ragno infaticabile, la cui esistenza non può che essere segnata dalla reiterata, costante, inesauribile tessitura di una tela ai margini della quale l’infuriare degli elementi, di tanto in tanto apporta crinature e spezzamenti.
– Riuscirete a risollevarvi? – domandò Valdo.
– Non lo so – replicò l’altro dopo un’esitazione e con un filo di voce, evitando di incrociare lo sguardo dell’interlocutore. – Sto ancora lavorando come un matto, dalle cinque di mattina fino alle otto di sera, e questo solo per pagare i debiti, o quasi, e scongiurare che i miei creditori promuovano l’azione legale per pignorare la mia casetta sul lago…
Aveva rilevato una rivendita di giornali, situata per sua buona sorte in un punto centrale della città: gli affari non dovevano andare malaccio, ma tutto il denaro che guadagnava di fatto non gli apparteneva, e chissà per quanti anni sarebbe ancora andata cosí. Valdo non poté trattenere un moto di curiosità, sicché commise l’errore di domandargli cosa ancora pensasse dello stato, della pubblica amministrazione.
– Lo stato non esiste – rispose di getto. L’istantaneità della replica avvertí Valdo che aveva toccato una corda sensibile, e l’edicolante, obbedendo apparentemente ad una sorta d’impulso radiocomandato, irresistibile, improvvisamente s’era fatto loquace, e rovesciò sul poliziotto, come una cateratta la cui altezza non può piú trattenere il livello delle acque, una ciclopica quantità d’improperi mischiati ad amareggiate considerazioni sulla rovina economica di un intero ceto, favorita se non procurata dai viziosi comportamenti della burocrazia statale. – Lo stato non esiste – ribadí; – esistono i politici, quelli sí, ma avrei dovuto immaginare che non me li sarei trovati dalla mia parte. O meglio: non quelli dell’alleanza costituzionale… forse il blocco identitario potrebbe assistermi…
Nonostante tutto, in qualcosa ancora credeva. Faceva un certo effetto constatare che un piccolo commerciante, pur dopo anni di turlupinature fiscali e legali, e amarezze continue che si ripetevano con l’alternarsi dei decreti ingiuntivi e degli atti notori, e vita agra, riponesse ancora fiducia in un rinnovato ceto politico da qualche anno venuto alla ribalta.
– Il blocco identitario? – disse Valdo. – Non dispiace neanche a me, sapete?
– Sono lieto che la pensiate cosí anche voi. Non sono un visionario, allora. Ancora non riesco a credere che lo stato ipotechi il mio appartamento per debiti, e che ai forestieri clandestini consenta l’accesso agli alloggi popolari, o chiuda un occhio quando sfondano le cancellate degli stabili abbandonati e li occupano!
Come avrebbe potuto, Valdo, dargli torto? Non è stato lui, si disse mentre veniva via. Ed era chiaro che non poteva essere stato lui: aveva ancora controllo integrale sulla sua capacità di giudizio. Inoltre, voleva uscirne fuori con costrutto, senza intoppi o grane, ricostruendo una possibile tranquilla esistenza.
Il secondo non lo trovò nella sua abitazione; s’imbatté, in suo luogo, nella vecchia madre, che viveva da sola, facendosi assistere da una specie di dama di compagnia, una donna un po’ meno avanti d'età di lei, inglese, che attraverso certe sue conoscenze era riuscita a trovare un lavoro al figlio della sua anziana assistita, ora riparato con mansione di cameriere in un bar interno ai grandi magazzini Harrod’s, dove si servivano il breakfast ed il lunch. Abitava in Londra ormai già da un anno, e nelle lettere che scriveva, invariabilmente si poteva leggere, in chiusa, che contava di non rientrare mai piú nella sua patria, addirittura rinnegata con parole di fiele in uno degli ultimi suoi scritti dall’esilio. Dalle piú recenti notizie che aveva dato di sé si poteva ricavare che aveva intenzione di sposarsi presto con una ragazza irlandese, ché insieme avevano messo su casa. Questo particolare aveva rasserenato la madre, che benediceva il provvidenziale intervento della sua assistente britannica.
Ora rimaneva l’ultimo indiziato, era venuta l'ora di mettersi in macchina alla volta della città di Svaro, dove Varna (cosí si chiamava, il presunto colpevole) risiedeva: Valdo si fermò ad una locanda della città vecchia, seminascosta in un viottolo secondario e trovata per caso. Dopo l’ottimo pranzo, alla maniera di casa, si mise in viaggio. Coprí in un’oretta scarsa la distanza che lo separava da Svaro, ma prima di intraprendere qualunque iniziativa, anche di pura osservazione, si recò là, dove sapeva che avrebbe trovato il funzionario locale della polizia giudiziaria, col quale era quasi d’obbligo conferire; lo aveva inoltre contattato per telefono il giorno avanti, preannunziando la sua venuta e rivolgendogli al contempo alcune richieste. Si recò in una zona isolata, dove stava l’ultima abitazione conosciuta di Varna; accompagnato dal funzionario e da altri due agenti, durante il tragitto aveva rapidamente consultato l’incartamento in cui si illustrava senza troppo soffermarsi sui dettagli, ma pur sempre col gergo mortifero della burocrazia giudiziaria, la disavventura che aveva colpito l’azienda di Varna, descritta come se non fosse stata anche la disavventura dell’uomo.
Giunti che furono al cospetto del cancello, invero minuscolo, ne riebbero quasi un senso di desertico abbandono. Il giardino che correva intorno al perimetro della villetta ad un solo piano era ormai ridotto ad un mareggiare di erbacce, sulla via di ricoprire finanche le larghe pietre quadrate che lastricavano il camminamento dal cancelletto fino alla scalinata dell’uscio. Tutte le imposte erano sbarrate; dovunque posasse, allo sguardo si palesavano i segni dell’incuria. Valdo, il funzionario e i due agenti compirono a guisa di ronda il periplo del muro di cinta: basso com’era, consentiva la veduta un po’ dappertutto, senza che l’esito della corriva, improvvisata perlustrazione mai si mutasse. Varna non c’era piú: semplicemente, s’era reso “indisponibile”. La serratura del cancelletto non oppose resistenza alla chiave universale del funzionario; quella dell’uscio d’ingresso alla casa, diede un po’ di noia, ma infine n’ebbero ragione. Dentro la casa regnava un silenzio a suo modo impressionante, che s’era mischiato al tanfo di chiuso.
L’arredo degli interni, quando fu fatta luce, colpí l’occhio di Valdo per due caratteri specifici: la spoglia essenzialità dell’ammobiliamento, ristretto all’indispensabile, e talora anche meno, e poi la predilezione per le tonalità scure, cupe. Una stanza – forse quella degli ospiti, o magari uno studio – era priva di tavolo; di sedie ve n’era una, presa dalla cucina. L’unico mobile era una libreria svettante fino a sfiorare il soffitto, ben fornita di volumi, e di fronte alla quale Valdo s’indugiò, scoprendo a sorpresa un lettore d’inequivocabile gusto bizzarro, che alternava La sfera dell’indovina al Principe e Sulle scogliere di marmo alle Elegie duinesi. Nella stanza da notte, invece, un tavolo ed una sedia, disposti ad un lato e antistanti a un divano-letto, figuravano anch’essi carichi di libri, insieme con un paio di cartelline di cartoncino leggero, tipo ufficio.
Mai come in quello scenario cosí spoglio d’oggetti, ma ancora denso dei solitari pensieri di Varna, Valdo si sentí oppresso da una tale forma di melanconia. Sul piano del tavolino che faceva da scrittoio, impilato sopra la Scienza della logica, v’era un manuale di diritto fallimentare, di quelli ad uso dei corsi universitari; e, nelle cartelline, debitamente numerate, stavano appunti ed estratti da quel testo, che ancora presentava i segni materiali di notturne, febbrili consultazioni, indicanti nel loro insieme il tentativo affannato di suggerire al proprio avvocato una difesa piú arguta, promuovere una condotta meno pigra.
Valdo prese con sé le cartelline, quindi abbandonò la villetta insieme col funzionario, lasciandola alla cura degli altri poliziotti col compito di sigillarla. Dalla perquisizione (veloce senza essere corriva, né superficiale, ché ormai gli agenti erano versati in quel genere di faccende) avevano capito che nessun altro indizio, o una traccia, o magari un richiamo ad uno spostamento recente di Varna sarebbero saltati fuori a facilitarne la ricerca, l’individuazione. Solo le cartelline portò via con sé; e in quelle, nei giorni successivi, rientrato nella capitale, egli si sarebbe immerso, prendendo a studiarle a fondo, intrattenendosi su quei testi fino a notte alta, quando già da un pezzo la rossa luce del tramonto aveva lasciato il campo al lucore intermittente del cielo stellato, cosí caratteristico a quelle latitudini. Cercava, a guisa dell’archeologo sui suoi frammentari reperti, un senso sfuggente in quelle righe vergate in preda all’ansia (la cui traccia si serbava nei discontinui contorcimenti della scrittura – altrimenti minuta e regolare, da miope –, contrassegno di chi, sopraffatto da flussi di ritornante angoscia, non poteva evitare che la sua grafia, a cadenze grosso modo regolari, ne venisse perturbata); cercava pure il ristabilimento di un contorno logico nel turbine della nevrosi definitivamente padrona di quel pensiero in rovina. E, ad un certo punto, dopo l’integrale immersione nel dolore mentale di Varna, il disegno prese forma: dagli appunti letti e riletti, una fissazione, se non una vera e propria mania, era emersa dal resto della schiuma che l’avvolgeva: il terrore del pignoramento immobiliare. E allora Valdo s’avventò, come un cane alla ricerca della folaga abbattuta dal cacciatore, sul faldone in cui era contenuta la sentenza di fallimento di Varna, emessa dal giudice Tenso, e la lesse: vi si diceva dell’accoglimento delle istanze di fallimento presentate dalle controparti di Varna (l’avvocato Diniz per conto di un certo Futro, ex operaio della ditta di Varna, che fu ammesso a partecipare alla divisione fallimentare vantando un credito da lavoro riconosciuto in prima udienza dal giudice Curater; quindi il dottor Echel, in nome e per conto della Banca di credito commerciale, alla quale Varna doveva una certa somma, che faticava a restituire, per un finanziamento accordato quattro anni prima) e del susseguente pignoramento di due immobili di sua proprietà, che costituivano tutto il suo patrimonio, ciò ch’era rimasto da quando era cominciata la Grande Tribolazione. Eccolo, si disse, l’anello mancante, il profilo del disegno che spiegava gli eventi: la firma dell’assassino.