giovedì 19 gennaio 2012

Il contesto. Una trascrizione (6)

Tempo da lasciar passare ne aveva, decise perciò di indugiare nei dintorni, in quella città diventata ormai un’estranea. Nella piazza, lungo il percorso delle bancarelle, mareggiava una folla variegata, di provenienze le più allogene: la stazione centrale è qui a fianco, pensò Valdo. Ebbe un tremito, come di freddo. Malgrado l’estate fosse imminente, non faceva caldo: dalla marina lontana spirava vento umido e fresco, ma in quel tremore si nascondeva un’esile inquietudine, che sapeva destinata a rinvigorirsi col trascorrere delle ore. Per ingannarla, si soffermò a compulsare qualche catalogo d’arte, documento di mostre tenute in giro per le grandi capitali del nord. I cataloghi delle mostre: ovvero, il riverbero del fluire cosmopolita di una cultura ridotta a molecole; e anche un indice della progressiva stratificazione sociale, del costituirsi, pietra su pietra, di un ristretto consesso di privilegiati in sempiterno credito col denaro e il tempo, tanto da poter decidere in qualunque momento di abbandonare ogni attività e partire per Parigi o Bruxelles, Madrid o Vienna, sulle piste ora di Cézanne, ora di Monet. Scorrendo la linea dei titoli esposti, l’occhio gli cadde su di una pubblicazione del tutto diversa, più compatta e voluminosa, stampata su carta di minor pregio: La Nobiltà Nera a Venezia dal XIII al XVII secolo, recitava il titolo. Non poté resistere alla tentazione di prenderlo tra le mani e di sfogliarlo, subito corse all’indice per tracciarsi una mappa mentale del contenuto. Costava una manciata di fiorini, e si risolse ad acquistarlo. Incamminatosi verso il Corso Vecchio, s’era lasciato alle spalle piazza della Torre dell’Orologio, avendo di mira gli spazi del lungofiume, meno soffocati di folla, dove forse qualche panchina su cui sedersi, e comodamente leggere, era ancora disponibile (nelle metropoli che una desueta propaganda vuole sede elettiva dell’industria e dell’operosità, immensi opifici a cielo aperto, chissà perché si incappa spesso in un inesplicabile andirivieni di sfaccendati). E, nel leggere quelle pagine, Valdo rifletteva su quanto la sorte sappia essere bizzarramente razionale; quanto mani ignare avessero disposto quel trattato storico a chiusa di una ghirlanda di cataloghi d’arte che solo pochi eletti avrebbero acquistato e compulsato seguendo una sconosciuta, ma oggettiva e razionale necessità. C’è idealismo perché c’è idea, si rincuorò, immergendosi di nuovo nelle vicende ricostruite nel libro.
L’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio, nel suo perpetuo rimodellare la storia, determinava circostanze probabilmente non calcolate: una poco estesa ma influente sezione periferica del suo comitato d’affari (magistrati, legali, notai, tributaristi, revisori di conti) beneficiava già da decenni dei frutti a cascata che l’organizzazione della lex mercatoria borghese e la speculare superfetazione del diritto privato garantivano. Di nuovo, gli venne in mente Varna, e l’anonimo ma inesorabile ingranaggio in cui, per il concorso di chissà quali e quanti avvenimenti, era rimasto intrappolato, senza poter disporre dell’aiuto provvidente e sagace che il comitato d’affari borghese, lesto ad accorrere a difesa del soldo dei potenti, lesina, pignolo e taccagno, ai miserrimi. Ogni volta che gli tornava in mente Varna, era come se alle spalle di quella sagoma senza lineamenti prendesse corpo un’ombra gigantesca, un moloch internamente composto da una miriade di ingranaggi e alberi rotori: lo stato, le istituzioni che lo compongono come macchina. Così s’era ridotto. Anche Varna era una di quelle circostanze non calcolate, e questo era di conforto a Valdo, poiché significava che l’idealismo non era dalla parte dell’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio, il che, presto o tardi, ne avrebbe segnata la sorte. Ma, come il libro che reggeva tra le mani suggeriva fin troppo chiaramente, l’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio seppe sfoggiare, nel corso della sua secolare storia, diabolica abilità nel travisamento, nel camuffarsi sotto sembianze di volta in volta diverse, nel recitare da consumato attore la parte di sé stessa e dell’opposizione a sé stessa al contempo: e che si può fare, contro un simile mostro, se si ha la sfortuna di rovinargli tra le fauci?
Una sorta di colpo d’ala del pensiero, abile a distoglierne l’intelletto dall’inseguimento metafisico, se non spettrale, di Varna, proiettò sullo schermo della mente di Valdo le ombre cinesi di Zosimo e Laras, e i fatti del loro scontro nello studio dello scrittore. Ne provava diffidenza, e non se ne spiegava il perché. Una immediata supposizione lo condusse a ravvisare, nella figura di entrambi, i caratteri che suggellano l’appartenenza, ancorché marginale, al comitato d’affari dell’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio; ma una tale diffidenza non costituiva spiegazione dell’alterco che li aveva divisi a recitare su fronti opposti. Fu qui che Valdo comprese il passaggio logico che lo aveva fatto transitare dalle capacità trasformistiche del sistema di dominio vigente, a quanto accaduto nello studio dello scrittore. C’era modo di ipotizzare che la sua visita potesse aver còlto di sorpresa Zosimo, e che costui, in qualche modo invischiato negli affari della Chiesa del popolo mondiale, ne avesse tratto motivo d’improvviso scoramento, se non di vera e con fatica celata paura. Ma, se così stavano le cose, perché mai raccogliere prove contro l’organizzazione di padre Caviglia? Sarebbe stato come raccogliere prove contro sé stesso. Forse, Zosimo non era impantanato piú di tanto con le iniziative imprenditoriali di quei due; nella cerchia accademica nazionale era notorio quanto le pubblicazioni d’una pluralità assai eterogenea di scrittori e pubblicisti di fama dipendessero dalla galassia editoriale che, direttamente o indirettamente, rimandava a padre Caviglia, e Zosimo n’era parte da piú di un lustro. Questo era uno tra i pochi fatti assodati: valeva la pena di utilizzarlo come base dell’interpretazione della scena svoltasi sotto i suoi occhi. Questa scena, peraltro, che aveva toccato a piú riprese punte farsesche e imbarazzanti, era esplosa come un fulmine a ciel sereno. Zosimo aveva, poco innanzi, espressamente manifestato il timore di rappresaglie, e che con questa allusione generica intendesse paventare una disdetta unilaterale del suo contratto con una casa editrice che gli liquidava periodici, cospicui versamenti, a corresponsione dei diritti d’autore, era cosa certa e finanche comprensibile. Ma poteva esserci dell’altro? Accusando Laras di avere, nel tempo, trasformato la quota di industria culturale ed editoriale detenuta dalla Chiesa del popolo mondiale nel suo portafogli, in un centro di produzione di letteratura sulle culture della narcosi da sostanze stupefacenti, sull’uso dei funghi allucinogeni nelle classi sacerdotali del Messico e dell’Asia meridionale, sulle esperienze psichedeliche di massa di un’intera generazione nel recente passato, su riti ancestrali e sacrifici cruenti, aveva sferrato un colpo basso dal quale non poteva discenderne che una ritorsione: perché l’aveva fatto, nonostante l’impreparazione all’attacco lamentata in camera charitatis, poco prima che colui ch’era il suo editore facesse ingresso nello studio? Piú rifletteva sull’intrigo, piú gli appariva chiaro che uno come Zosimo, con uno spiccato senso dell’utile, difficilmente avrebbe sprecato il suo tempo nella composizione di un dossier sulla Chiesa del popolo mondiale, corredato di documentazione probatoria, per sottoporlo all’autorità giudiziaria; anche perché era l’ultimo ad ignorare gli appoggi in seno a palazzo di giustizia che garantivano da iniziative inquisitorie l’organizzazione di padre Caviglia. Se l’avesse fatto, la sorte capitata ad Amerigo Durant, da lui stesso rievocata con un brivido, sarebbe toccata a lui. Diciamo che, con tutta probabilità, Zosimo, “scrittore civile” e “vaso di verità”, si era procurato un salvacondotto tale da metterlo al riparo da rappresaglie o imboscate. Anche di questo avrebbe dovuto discutere con Drogo.
L’ora del pranzo era trascorsa da un pezzo; riscuotendosi dal flusso di fantasticheria entro le cui ondivaghe volute s’era messo in temporanea clausura, ne sbirciò di malavoglia l’orologio: le quattro del pomeriggio. L’appuntamento con Drogo era per le sette. Indeciso se tornare a casa, posare il libro, attendere all’incirca un’ora e mezzo prima di uscire nuovamente, o incamminarsi da subito verso il luogo convenuto, scelse una via di mezzo: al suo appartamento non avrebbe fatto ritorno, né valeva la pena di portarsi immediatamente, con tale eccesso d’anticipo, in prossimità della trattoria; avrebbe seguíto, invece, lo stratagemma di avvicinarsi a tappe al luogo stabilito, inframmezzando tra l’una e l’altra la lettura di qualche pagina del libro. Sapeva e vedeva con chiarezza l’inquietudine che, tenue e incolore, s’era affacciata appena alla coscienza mentre vagava tra le bancarelle di piazza della Torre dell’Orologio; e sapeva quale progressione la stesse già trasformando da gassosa in liquida, fluido mescolato al sangue, perennemente in circolo a deformare i contorni degli oggetti, ridisegnando l’innocuo sorriso, che per combinazione fortuita sfiora tangenzialmente l’incedere, nella maschera sotto la quale si cela il sinistro bagliore dell’agguato. Da poliziotto di lungo corso, s’era abituato col trascorrere degli anni a convivere con l’estesa tastiera di una moltitudine di sensazioni sgradevoli, urticanti: una tastiera disposta a scala, come quella di un pianoforte: spesso predominavano i registri centrali di un rigoroso e posato calcolo dei rischi, ma andavano incrementandosi le occasioni in cui prendevano corpo i fantasmi suscitati dal registro grave dell’indefinito timore e dell’agitazione impalpabile. Qualche volta, ebbe a riconoscere lo stridore dissonante che materializzava il registro acuto della paura. Adesso siamo ancora nel grave, si disse.
Dopo aver camminato per una ventina di minuti, s’era lasciato alle spalle il fiume, ed era prossimo, ormai, alla stazione centrale: ne vedeva, anzi, la fiancata orientale. Percorse il tratto che conduceva all’entrata, ma s’arrestò ben prima di farvi ingresso, e se ne tenne anzi distante. Nei dintorni della stazione c’era dovizia di bar e caffetterie, gli sorse prepotente bisogno di confortarsi con un tè e qualche pasticcino, ché i morsi del pranzo saltato cominciavano a farsi sentire e non aveva voglia di presentarsi di fronte a Drogo stravolto dalla fame. Dirigendosi verso la caffetteria che pareva la meno degradata tra quelle nei pressi, di nuovo guadagnò con lo sguardo la stazione, fermandosi a scrutarne l’entrata, nel tentativo senza esito di catturare qualche scorcio di binario a vista. L’inquietudine aumentava la pressione sull’anima. Gettò lo sguardo tra la selva dei turisti e dei vagabondi, degli sfaccendati e degli accalappiatori di portafogli, e gli venne memoria dell’unico viaggio del suo passato, verso una triste città del nord, senza sole e senza ulivi, tra deliziose manifatture di cioccolato e virtuosismi in tessuti rari. Una città nella quale non avrebbe mai saputo vivere. E come si potrebbe vivere in una terra senza ulivi?, si sorprese a pensare.
Nella caffetteria, al riparo dalla maleodorante ed inutile congerie etnica che affliggeva i dintorni, e dilagava nei panorami urbani arrecando degrado crescente, ricominciò la lettura del libro. Pagina dopo pagina, scorrendone con gli occhi i minuti caratteri, tra le righe volte a ricostruire avvenimenti storici che parevano essere lontani, e invece si dimostravano disperatamente vicini, filo su filo si ricomponeva la ragnatela del potere, come quei giochi delle riviste di enigmistica lasciano percepire la figura nascosta attraverso l’unione di puntini numerati con una serie progressiva di righi di penna. Se fosse stato uno di quei dilettanti che giocano a fare gl’investigatori, vi avrebbe trovato qualcosa di elettrizzante: invece, non ignorava, non poteva ignorare che l’idra del potere detenuto dall’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio è sempre pronta all’opera dell’insidia; che dispone di sensori capaci di avvertire infinitesimali variazioni nel peso e nel calore delle idee circolanti, le misura, conserva nel suo armamentario una quantità sterminata di tecniche per decantare e filtrare e riconvertire l’opposizione, finché ciò che resta, solido ed insolubile per congenita natura, ma ineluttabilmente isolato, viene eliminato come una fastidiosa scoria. “L’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio praticava l’omicidio politico, occultato sotto mentite spoglie...”.
Riscuotendosi dal torpore in cui s’era rinchiuso nel tentativo di entrare nel cuore del tempo, controllò l’orologio che dalla parete della caffetteria occhieggiava immobile: le sei della sera, trascorse da una decina di minuti. Pagò il conto e, nell’uscire, dello sguardo curioso e stralunato del cameriere non si avvide. La trattoria nella quale si sarebbe incontrato con Drogo s’incastonava tra i vicoli a raggiera che un geniale architetto, ispirandosi a Francesco di Giorgio Martini e Andrea Palladio, aveva concepito sulla scorta delle speculazioni rinascimentali sulla città ideale. Dai pressi della stazione, alla trattoria si poteva giungere in una mezzora, camminando a ritmo sostenuto. Scorrevano al suo fianco, mentre filava con passo spedito, le vetrine dei negozi. Una ad una andavano illuminandosi. Valdo scrutò il cielo, e vide l’ombra del crepuscolo: un impercettibile minus di lumen dell’irraggiamento che s’elongava dallo zenit, declinando sull’orizzonte. Il camminare era meccanico, conosceva bene l’itinerario. Vi si recava spesso, in quella zona, soprattutto nelle domeniche estive, quando si manifestava la necessità di lasciar decantare quel filo di solitaria tristezza che, in mancanza delle accortezze imparate nel corso degli anni, sarebbe andato aggravandosi. Ma ora, ora che poteva scrutare il nembo del tempo trascorso dall’altro lato, gli riaffiorava alla mente Varna, il suo dolore costante, mescolato ai propositi di vendetta: propositi che un meccanismo causale aveva generato come unica via d’uscita alla sopportazione di un flusso negativo senza soluzione di continuità. E una volta messo in atto il disegno, dopo il primo passo, nella sua coscienza doveva essere comparso il titanismo del giudicare, del sentirsi giudice di quelle vite che spezzava. Un tale titanismo, il suo giudice di tribunale – qualora Valdo fosse riuscito ad acciuffarlo – avrebbe giudicato: e condannato. Gli tornarono in mente profonde parole: “La causa è: a) una realtà originaria e che ha da sé il primo movimento; e b) essa è però un condizionato da qualcosa su cui essa agisce e la sua attività passa nell’effetto. In questa reciprocità è insieme implicito che nessuno dei due momenti della causalità è qualcosa di assoluto per sé, ma lo è soltanto questo intero circolo della totalità, conchiuso in sé, che è in sé e per sé” (Hegel, Propedeutica).
Possono esserci momenti, nella vita dello stato, nei quali le ragioni dell’esercizio del governo e della conservazione del potere producono un conflitto che prende alla sprovvista il singolo. Nell’atto sacrificale, la vittima non ha cognizione della sua essenza di puro oggetto; raggiunge questa conoscenza nel momento in cui la lama del carnefice víola il suo corpo, in quell’inesteso punto in bilico tra essere e nulla in cui terrore psichico e dolore fisico sono inestricabilmente congiunti, per poi tornare a separarsi. Dopo di che, il flusso della vita psichica non risponde più ad alcuna categoria razionale, e la vittima che l’abbia scampata può decidere di restituire la pariglia, convertendosi in carnefice. La legge del taglione, cosí tanto esecrata dai giuristi d’ogni epoca. Ma la sospensione delle categorie razionali era in precedenza affiorata già nelle decisioni dello stato, nella sua legislazione: l’esercizio del governo estraneo a categorie di razionalità e avente a scopo la sola conservazione del potere, ossia il Leviathan, aveva determinato, per azione reciproca, il progetto omicida di Varna; e conferito alla sua anteriore mitezza i caratteri cruenti del giudice che amministra un altro tipo di giustizia. La “giustizia” di Varna stava in qualche modo ristabilendo un equilibrio, per quanto confinato al flusso della sua vita psichica.
Finalmente, un quarto d’ora prima delle diciannove, sbucò in corso della Serenissima. Percorse all’incirca duecento metri, accelerando il passo fin quasi a correre, e tralasciando, contrariamente ad una consolidata abitudine, di trattenersi al cospetto della vetrina di un negozio specializzato nella vendita di articoli per il disegno, sia artistico che tecnico. Per un certo periodo di tempo aveva coltivato la chimera di dedicarsi al disegno industriale, e questo lo aveva spinto a frequentare librerie e negozi specializzati, ma con esiti pressoché nulli. Una residuale affinità era rimasta, benché con la mutata forma del senso di colpa, e ogni qualvolta sentiva necessità di svagare la mente, si soffermava davanti a quelle vetrine che più gli lasciavano modo di ingegnarsi in progetti avveniristici, che avrebbero potuto – se fossero stati poco piú che un fatuo, assurdo sogno – trovare accoglimento e riconoscimento in qualche esposizione universale in giro per il mondo. Ma, poi, proprio questo elemento gli venne a noia, causando disturbi dei quali, sulle prime, non seppe rendersi ragione. Cominciò tutto con un disagio di fronte a quel modo di dire: in giro per il mondo. Che bisogno aveva di andarsene vagando per il pianeta, in visita a mostruose megalopoli, d’oriente o d’occidente che fossero? Cosí, anche il disegno industriale era entrato a far parte di una lista di tentativi andati a vuoto.
A metà di corso della Serenissima, svoltando a sinistra, una larga traversa intitolata alle dogane dogali s’incastonava, obliqua, nella tessitura color d’ocra scuro dei palazzi, sino a sbucare in una piazza quadrata, percorsa lungo il suo perimetro da alcuni olmi frondosi. Questo particolare contribuiva a rendere l’insieme intimo e accogliente alla vista. La tranquillità che ne promanava, però, durò un frammento di secondo. Di nuovo, gli venne da controllare l’orario: dieci minuti alle diciannove. Con sorpresa si scoprí ansimante, rendendosi conto di aver corso per giungere dalla stazione al luogo dell’appuntamento. Improvvisamente, stava guadagnando coscienza di quanto l’inquietudine, che s’era affacciata minuscola e quasi inosservabile di fronte alle bancarelle di piazza della Torre dell’Orologio, avesse in realtà scavato nella struttura della sua psiche, modificandone, come una coazione mimetizzata nel complesso meccanismo neuronale, il comportamento; e comprese come, piú spesso di quanto non si ritenga ordinariamente, l’inquietudine, controparte soggettiva di uno stato di cose oggettivo, rappresenti una penetrazione della cerchia dell’oggettività nella compagine psichica del soggetto: l’enigma dell’oggetto che si soggettivizza.
Decise di fare ingresso nel locale, sedersi in attesa di Drogo, recuperare fiato e padronanza di mente. L’interno in cui si trovò era confortevole e illuminato con una luce a incandescenza aranciata, che ricordava i lumi cimiteriali; prese posto a un tavolo e fece intendere al cameriere, che di lí a poco giunse nei suoi paraggi per servire due avventori ad un tavolo poco più in là, che era in attesa di una persona. Ormai erano le diciannove: come mai Drogo non si vedeva? L’inquietudine prese di nuovo a roderlo col suo tarlo, contro il quale non c’è difesa: Drogo, si disse, era stato allontanato dal servizio, quindi non poteva essere stato trattenuto da impegni di lavoro chissà dove. E se fosse accaduto un incidente? Una ridda d’ipotesi le piú inverosimili, ma tutte legate da un fondo generale di pessimismo, s’avanzarono turbinandogli nella mente. Fintanto che, mentre tentava di trovare il coraggio necessario a guardare per l’ennesima volta l’orologio, la sagoma di Drogo si materializzò sulla soglia, illuminata dalla luce aranciata del locale. L’ex direttore del SIS aveva con sé una borsa di pelle nera all’apparenza rigonfia di documenti; vide l’ispettore seduto ad un tavolo, e senza fermarsi gli fece cenno di seguirlo, mentre si dirigeva in fondo al locale, dove il cameriere stava armeggiando con delle posate. Quando Valdo giunse lì dov’erano i due, si accorse dell’esistenza di un’altra sala – molto ampia e perpendicolare all’ambiente più piccolo dov’egli, entrando, s’era attestato – illuminata dalla stessa luce color aranciato, ma leggermente piú intensa rispetto alla prima. Drogo e Valdo vennero invitati dal cameriere ad accomodarsi ad un tavolo appartato, in un angolo lontano dalle mura che davano sull’esterno. Era stato Drogo a farlo riservare.
Valdo si scoprí finalmente rilassato; l’inquietudine s’era ritirata in un qualche antro inaccessibile della sua psiche. – Ho temuto un vostro improvviso cambio di orientamento – disse.
– Nessun cambiamento. La mia destituzione è stata formalizzata oggi, ho perso tempo al ministero e in ufficio, dove ho dovuto ritirare i miei effetti personali, ma devo ancora terminare: entro domani la stanza deve essere sgombera per l’insediamento del mio successore. Mi verrà sospeso anche lo stipendio. – Era rabbuiato.
– Avete incontrato il ministro? Che spiegazione vi è stata fornita dell’accaduto?
– Naturalmente, il ministro non si è fatto vedere; c’era il suo capo di gabinetto, molto imbarazzato. Quanto alle spiegazioni, cosa vi aspettate che dicano... in simili casi si trincerano sempre dietro la giustificazione del normale avvicendarsi dei funzionari richiesto dalla commissione parlamentare che controlla i servizi d’informazione. Ma la sospensione dello stipendio è un provvedimento eccezionale sul quale il capo di gabinetto ha elegantemente sorvolato. Per giunta, credo che il provvedimento non sia stato neppure comunicato alla stampa.
Venne il cameriere con un aperitivo e a prender nota delle portate. Lontano che fu questo, Drogo indicò la capiente borsa che l’accompagnava. – In queste ultime ore ho cercato di radunare tutte le sparse informative giunte nelle settimane scorse nel mio ufficio – disse. – Ho perso un bel po’ di tempo a fare delle fotocopie, sono tutte qui –. Batté l’indice sulla borsa di pelle nera.
Un soffio di stupore percorse il pensiero di Valdo: gli avevano consentito di fotocopiare materiale riservato? e di trasferirlo di là dalle mura dell’archivio, per giunta? Interrogato sul fatto, Drogo rivelò di aver compiuto il furto di documenti al mattino presto, prima dell’arrivo del capo di gabinetto e dei funzionari del ministero. – Non sono usi a venire a lavorare presto, quelli lì... se la prendono comoda – celiò.
Su questo, riconobbe Valdo, l’ex direttore del SIS aveva piú d’una ragione: fino alle dieci del mattino, le caffetterie nei dintorni di piazza del parlamento traboccavano di figure avvolte in soprabiti neri e cravatte rosso scuro.
– Informazioni sparse, bisognerà rimetterle insieme – osservò poi, improvvisamente dimentico di quelle stranezze della vita di un sistema di potere sempre piú simile ad un sultanato. Valdo annegò un filo di malessere nell’aperitivo molto fresco.
– Cominceremo a lavorarci da subito, se non avete nulla in contrario. Ma la difficoltà maggiore che incontreremo riguarderà non tanto la ricostruzione del loro piano, quanto stabilire il nostro.
L’ispettore capí dal tono della voce, fattosi grave, che l’ex direttore stava per proporgli un progetto. E che un tale progetto non era da prendersi alla leggera.
– Quanto al loro, di piano, credo che abbiate saputo decifrarlo subito dopo l’incontro col ministro dell’altro giorno, almeno nelle sue direttive essenziali. L’attuale disposizione del quadro politico presenta delle zone, in apparenza marginali, dove tensioni potenzialmente distruttive stanno concrescendo; una teoria politica molto in voga presso gli strateghi degli attuali detentori dell’esercizio del governo e della conservazione del potere (e della quale nessun politologo che venda la sua dottrina a cottimo troverà mai il coraggio di discutere in pubblico), sostiene che non c’è errore piú letale che rappresentarsi lo spazio politico come un piano cartesiano; esso, invece, va trattato come una specie di campo gravitazionale, capace di subire un improvviso sbilanciamento qualora si consentisse, a queste zone marginali, di accumulare un eccesso di peso.
Giunse il cameriere con una portata di vivande e del vino rosso, forte, che sprigionava il suo aroma mediterraneo provocando singolare contrasto con il contenuto del discorso di Drogo. Il quale, per pochi secondi sospese il corso delle sue riflessioni, onde poi riprenderle, giacché fu in quel momento che Drogo notò il libro di Valdo e, incuriosito, sbirciò la copertina, e ne lesse le righe di presentazione del testo in terza. Chiese di poter dare una scorsa al contenuto ma, dopo un paio di minuti di interessato esame, tirò un sospiro: – Una rete di potere che travalica i secoli, ecco cosa abbiamo di fronte, – disse. Quel sospiro avvertí Valdo d’una latente mestizia che accompagnava il giudizio dell’ex direttore sulla loro vicenda.
Senza che avessero potuto averne contezza dall’inizio, si trovavano ora al cospetto di un potere trasmesso elettivamente all’interno di una cerchia chiusa, che Drogo non avrebbe saputo concretamente definire, né tanto meno descrivere se non per sommi capi. La ricchezza era il carattere comune dei membri di questa strana congregazione a metà tra il club privato e la corte papale.
– Probabilmente, proprio la costruzione di potere del Vaticano è quella che tentano di scimmiottare... quel Vaticano che nel corso dei secoli hanno tentato di infiltrare... ma, e voi lo sapete: Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam...
...et portae inferi non praevalebunt adversum eam, pensò Valdo, stupendosi della deriva mistica delle considerazioni dell’ex direttore. In realtà, e Valdo avrebbe avuto modo di accorgersene con ritardo, non di misticismo si trattava, ma di un ordine di considerazioni ancor piú sottile, che andava cercato ed estratto dalla ricostruzione del racconto dell’evangelista, cosí come la corretta pronuncia dell’ebraico – per tradizione senza vocali – viene indicata dai segni diacritici aggiunti dai commentatori al testo del salmista. Valdo non poté impedirsi di pensare che la chiusa del lascito del Figlio al Pastore, che recitava: Et tibi dabo claves regni caelorum, poteva rappresentare, se adeguatamente interpretata, la soluzione del problema. Ma non si dà soluzione di problema senza corretta formulazione del problema stesso. E qual era questa formulazione? Che l’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio possedeva il mezzo del potere, non già il suo principio; un principio di fatto intrasferibile: depositato una volta per tutte, con regolare trasmissione, dal Figlio nella figura del Pastore, esso ne costituiva essenza ontologica, e non era piú possibile esternalizzarlo. L’aristocrazia cosmopolita del denaro e del commercio doveva accontentarsi perciò (ecco la soluzione) della simia dei.
Risalendo dalle fosse abissali e quasi immote della tettonica a placche del potere all’orografia frastagliata del sistema trans-statale di potere e crimine nel quale erano calati e agivano da decenni, l’ex direttore cercò di precisarne alcuni punti salienti: – L’esercizio del governo dello stato e della conservazione del potere (che è cosa ben diversa dalla scienza politica che si insegna nelle università), nella versione oggi prevalente sostiene che l’accumulo di quantità discrete di queste tensioni può essere sopportato dalle capacità intrinseche degli assetti dominanti, ma con rischio virtualmente crescente: qualora una bastevole quantità di tensione sbilanciasse l’equilibrio consolidato, implicitamente si costituirebbero le condizioni per un cambiamento di assetto.
– Dunque – intervenne Valdo, – il ministro teme di essere disarcionato dalla sua funzione di comando sul quadro politico a causa delle pressioni che il blocco identitario, svolgendo in modo razionale la sua iniziativa politica, sta esercitando su tutta la nazione.
– Proprio quel che sta accadendo – annuí con un sospiro l’altro.
La defenestrazione di Drogo era perciò uno dei tasselli, forse tra i primi, di una contro-iniziativa che il ministro della Sicurezza nazionale aveva ideato per impedire il tracollo del suo sistema di esercizio del governo e conservazione del potere. Il sospetto di Drogo, che rivelò a Valdo, era già un primo discendere dal limbo alla sequenza dei gironi infernali.
– O meglio: nessuno è in grado di prevedere cosa potrebbe scaturire dalle iniziative del blocco identitario – aggiunse l’ex direttore dopo una breve pausa, ché stava mostrando di gradire le pietanze servite; – ma non è questo l’importante. Avendo di mira l’esercizio del governo e la conservazione del potere, e guardando alla teoria del quadro politico inteso come campo di molteplici perturbazioni possibili, nessun assetto di potere se ne può restare fermo e immobile. Gli assetti dominanti non rimangono mai fermi e immobili. Si condannerebbero, per questa via, al non-essere. A rientrare in quel non-essere da cui accidentalmente, neppure loro sanno come, sono sorti. Ecco spiegato il motivo che spinge l’assetto dominante guidato dal ministro a dichiarare una guerra occulta al blocco identitario.
– E con quali mezzi verrà esercitata questa guerra? – domandò Valdo, ormai a un passo dal poter contemplare la verità in modo prospettico.
– Credo che ora stiate capendo quel che ha cominciato da poco ad accadere, e cosa continuerà ad accadere. – La voce dell’ex direttore si fece grave di tono, e il volume era basso, perduto in un soffio. Disse: – Anche se la teoria da voi individuata dell’assassino solitario, il vostro Varna, fosse giusta, sta per diventare sbagliata.-
E questo era quel che Drogo temeva: nella disperata difesa del suo sistema di esercizio del governo e conservazione del potere, il grumo di interessi cristallizzatosi intorno alla figura del ministro della Sicurezza nazionale aveva ordito un progetto di sfruttamento parassitario del piano omicida di Varna; un piano che doveva progressivamente digradare dagli obbiettivi personali di Varna, trascelti nel novero dei funzionari che ne avevano segnato la disastrosa sorte, ad altri obbiettivi, meglio inquadrati nell’insieme di un disegno politico dal contenuto omicida addossabile a occulte frange eversive, fino ad allora sconosciute e inconfessate, ispirate dal programma politico xenofobo del blocco identitario.
– Del resto, – concluse Drogo, – se l’esercizio del governo e la conservazione del potere sono della stessa sostanza del non-essere, non c’è contraddizione con l’idea generatrice di questo piano: tutto appartiene al non-essere. A quanto ne so, voi siete uomo di letture filosofiche; credo che vi sia capitato di meditare su quel celebre passo di Parmenide: “Ed essi vengono portati avanti, muti e ciechi ad un tempo, gente indecisa, per cui l’essere e il non-essere è lo stesso e non è lo stesso, e per cui di ogni cosa v’è una strada che può esser percorsa in due sensi”.
Valdo aveva lungamente meditato il frammento B3 del poema Sulla natura, di Parmenide di Elea, nelle solitarie estati che trascorreva ospite nella residenza di campagna di un suo amico d’infanzia, l’antiquario Nartece. Ora, grazie alla collocazione del pensiero dell’antico eleate nel quadro di un complotto politico di alto livello, quella aurorale riflessione s’illuminava di una vivida ghirlanda di nuovi significati. In particolare, gli tornò in mente quel riferimento al sistema politico come non-essere, che non si poteva non accomunare ai “sentieri della Notte e del Giorno” menzionati al principio del proemio. Erroneamente si interpretavano le parole da Parmenide dedicate al non-essere: “L’altra è la via che non è e che è necessario che non sia, e questo, ti dico, è un sentiero inaccessibile a ogni ricerca. Perché il non-essere non puoi né conoscerlo (è infatti impossibile), né esprimerlo. Perché lo stesso è pensare ed essere”. Drogo lo stava avvertendo che si erano incamminati sul sentiero della Notte.

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